Elvira Serra, Corriere della Sera 20/03/2010, 20 marzo 2010
A OGNUNO LA SUA SEDIA. COSI’ NEL MIO UFFICIO UNA MACEDONIA DI STILI
La prima non si scorda mai. Anche se adesso è relegata lì in fondo. Non proprio un genere facile. Essenziale, piuttosto. «Di rame e ferro, scomodissima. Dell’ architetto ceco Borek Sipek». Poi sono arrivate le altre. Di Philippe Starck, una collezione: Costes, Neoz, Asahy, Lord Yo, Toy, Pratfall, J., La Marie, Louise Ghost. Una alla volta, è stato il momento della Maui di Magistretti, della Willow di Mackintosh, della Lc4 di Le Corbusier, della Wassily di Marcel Breuer. L’ etnica di Inge Bouwmeester non ha sfigurato accanto alla Bentwood dei fratelli Thonet, la classica Frau non si è scomposta vicino alla Armani, la scultura Tecno di Armando Testa da una parte e la Cassetti-era di Arcangelo Favata dall’ altra. Sono centotredici quelle di cui è nota la paternità. Ma ce ne sono altre senza pedigree: colorate, essenziali, di cachemire o di coccodrillo, rivestite con foulard di Salvatore Ferragamo o di Gianni Versace, con stampe di fumetti attaccate con la colla o ammorbidite da giganteschi fiori di velluto, alte, basse, in plexiglas, minimal, ingombranti. «La sedia rappresenta l’ individualismo dell’ essere umano in generale, e dell’ italiano in particolare. Qui con me lavorano una ventina di persone. Ciascuno, al momento dell’ assunzione, ne ha potuto scegliere una. Noto che dopo quattro o cinque mesi si crea un mercato e si cambia. Dal punto di vista del design la sedia è l’ elemento più articolato: ognuna segue uno schema base, quattro gambe, scala, base orizzontale e verticale, e il materiale varia dal cotone all’ alcantara, dalla pelle all’ acciaio». Lorenzo Marini, il pubblicitario che ha messo il pullover a Pier Ferdinando Casini, spiega la sua filosofia della sedia nel loft-studio di via Tortona, cuore milanese del design. Cinquecento metri quadrati dove il bianco è il colore dominante, tende e tavoli uguali, ma l’ elemento destrutturante, originale e unico, è rappresentato dalle sedie, metafora della creatività che non segue mai percorsi omologati. «Undici anni fa, quando ho creato la mia agenzia di pubblicità, volevo una sede disomogenea, difforme, un po’ una macedonia di stili. E desideravo anche che assomigliasse a una casa, visto che ci passiamo la maggior parte della giornata. Quindi ho fatto fare la cucina con la lavastoviglie (e in effetti mentre stiamo parlando Stefano, il responsabile produzione, ha messo su l’ acqua per la pasta, ndr), l’ angolo del calcio balilla per svagare i ragazzi, una poltrona letto per il copy che viene da fuori e se finisce tardi ha bisogno di fermarsi per la notte». La sedia di Lorenzo Marini è una Ikea rivestita di cachemire bianco con il bordo nero. «Normale, ma morbida». Intorno al tavolo a specchi della sua stanza sfilano i decenni e i designer: Fornasetti, Art Déco, Futurismo, Starck per Driade, Frau. Sulla parete principale, è riprodotta la stessa frammentazione. Un quadro di pesci Anni Trenta, una volpe futurista del ’ 17, un Armando Testa del 1990, un’ opera di Leonardo Cemak, un ritratto di Daniele Cima, una tavola originale di Sergio Toppi e, sull’ altro lato, una donna che cammina di Matteo Mezzetta. « un acquisto recente. Non so se mi piaccia più il quadro o il concetto: cioè mi riprendo quello che la fotografia mi ha rubato». Il gusto per il design è fin troppo ricercato per essere una ostentazione formale. «Mi considero un art director che è passato per l’ architettura, mi sono laureato a Venezia. Quindi ho molto senso dello spazio, mentre la pubblicità è bidimensionale. E in una professione che rincorre le tendenze, sta lì come il surfista che aspetta l’ onda giusta, dominata dall’ ansia dell’ up-to-date, dell’ aggiornarsi in ogni istante, è bello circondarsi di punti fermi, di cose che restano. In questo senso le sedie sono dei testimoni». Sulle scrivanie che delimitano le diverse «isole» di questo open space sbucano qua e là orchidee bianche. «Le regalo a tutti per il compleanno, sono molto apprezzate. Abbiamo anche l’ usanza di farci i regali a Natale, ma senza scrivere chi è che lo ha fatto: mettiamo solo il nome del destinatario. Non spetterebbe a me dirlo, ma qui si sta bene. Lo dimostra il fatto che non c’ è turnover, il che è un problema per certi versi. Ma sono contento che qui si respiri aria di casa. Che se un copy ha un problema di lavoro e deve trattenersi per risolverlo, gli altri rimangano con lui, senza chiedere lo straordinario: qui non si timbra il cartellino».
Elvira Serra