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 2010  marzo 20 Sabato calendario

UN’ILLUSIONE LA DEMOCRAZIA VIA WEB. ESTREMISTI E DESPOTI SFRUTTANO INTERNET

Dalla «Dichiarazione d’ Indipendenza del Cyberspazio» di John Perry Barlow (1996) fino a non molto tempo fa abbiamo vissuto nella convinzione che Internet e le tecnologie digitali avrebbero promosso ovunque la diffusione della libertà facendo penetrare, prima o poi, il germe della democrazia anche nei più arcigni regimi autocratici. Una tecno-utopia bella e incoraggiante, finché è durata. Oggi ci risvegliamo in un mondo nel quale in Cina il mercato (che doveva portare libertà economica destinate a tirarsi dietro anche quelle civili) produce società come la Trs Technologies che si pubblicizza così: «Grazie alla nostra tecnologia, oggi il lavoro di dieci poliziotti di Internet può essere fatto da un poliziotto solo». Un mondo nel quale in molti Paesi i gruppi della «società civile» che usano con più abilità il web contro governi più o meno autoritari non sono esattamente modelli di democrazia: in Egitto a usare Internet contro il regime di Mubarak con più intelligenza e capillarità sono i «Fratelli Musulmani», la più forte organizzazione dell’ Islam radicale. In Libano chi padroneggia di più new media e reti sociali non sono le forze politiche filoccidentali che appoggiano il governo di Saad Hariri, ma gli «hezbollah». Per la loro stessa natura, Internet e le tecnologie digitali rimangono strumenti con enormi potenzialità positive, ma sono anche meccanismi complessi che dovevano essere maneggiati con logiche meno semplicistiche, vista anche la loro straordinaria rilevanza politica, economica e sociale. Così oggi, davanti a un braccio di ferro che sembra destinato a concludersi con l’ abbandono della Cina da parte di Google, non ci si può interrogare solo sul futuro dei rapporti Usa-Cina, delle tecnologie digitali in Asia e del gruppo di Mountain View (uscirà del tutto o manterrà un piede nel Paese attraverso la piattaforma Android? Come fa una multinazionale globale a rinunciare al grande mercato del futuro? Il titolo crollerà in Borsa?). Sono domande importanti, ma è venuto anche il momento di guardare con più realismo al rapporto tra Internet, libertà e democrazia. Per oltre un decennio tutti i maggiori esperti della rete hanno scommesso sull’ ineluttabilità di un effetto «virtuoso» delle tecnologie digitali. Lo sviluppo delle reti sociali e di strumenti come Twitter, la sensazione di una loro efficacia nei movimenti di protesta iraniani, hanno amplificato questa idea. Eppure già dopo le Olimpiadi di Pechino abbiamo cominciato a renderci conto che il sogno di un’ apertura democratica della Cina era, appunto, un sogno. Successivamente le vicende iraniane hanno insegnato che i regimi attaccati dai dissidenti con gli strumenti dell’ informatica imparano ben presto a contrattaccare. Tra i primi a porsi delle domande fu, curiosamente, un re della satira televisiva Usa come Jon Stewart che nel suo «Daily Show» cominciò già parecchio tempo fa a chiedersi «ma perché mandiamo in giro eserciti se abbattere le dittature via Internet è facile come comprare un paio di scarpe?». Poi è toccato al direttore della rivista Foreign Policy, Moises Naim, avvertire che «gli autocrati non sono più i cybertonti di un tempo». Non cercano più solo di oscurare, di bloccare i mille rivoli del dissenso: contrattaccano con le stesse armi, fanno controinformazione, avvelenano i pozzi creando siti e mettendo su YouTube filmati di finti dissidenti. E poi spiano, intercettano, fotografano, schedano gli oppositori. Mettono in rete, come avviene a Teheran, le immagini dei manifestanti e chiedono ai cittadini fedeli al regime di fornire elementi per identificarli. O creano veri e propri eserciti di poliziotti informatici incaricati di sorvegliare in modo capillare la rete. Come avviene nella Cina sospettata di essere all’ origine di attacchi informatici che hanno colpito Google e che risponde con durezza al rifiuto dell’ azienda californiana di assoggettarsi alla sua censura. Le analisi più accurate in questo campo vengono da un giovanissimo studioso bielorusso emigrato negli Usa. In numerosi saggi pubblicati su Prospect, Wall Street Journal e Newsweek Evgeny Morozov, ora alla Georgetown University di Washington, ha descritto caso per caso, dalla Thailandia alla Moldova al suo stesso Paese, i modi in cui i regimi autoritari hanno vanificato le speranze dei tecno-utopisti. Morozov elenca anche molti esempi «virtuosi»: casi nei quali la tecnologia ha davvero aiutato i dissidenti, ad esempio a mantenere le comunicazioni segrete facendole passare per sistemi Skype anziché attraverso linee telefoniche sicuramente intercettate. Il suo è un invito a uscire dai teoremi, a esaminare caso per caso ciò che accade nel mondo sulla base dei dati reali, dei diversi contesti politici, delle diverse culture. «Non sarà - si chiede l’ analista - che abbiamo puntato fideisticamente su Internet per mascherare l’ inefficacia di altri strumenti della diplomazia?». E poi un dubbio: che, spalleggiando Twitter in Iran e Google in Cina, il governo Usa finisca involontariamente per offrire ai dittatori di mezzo mondo un modo per presentare i social network come la nuova «Voice of America» e i dissidenti che vanno su Twitter o Facebook come servi di Washington. Hillary Clinton che, dopo aver attaccato duramente Pechino quando scoppiò il caso, ieri ha dichiarato di non voler intervenire nella disputa Google-Cina, sembra aver ascoltato.
Massimo Gaggi