Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 20/03/2010, 20 marzo 2010
SE I CANNIBALI SCONFIGGONO IL SOGNO DI DOLCI - C’ è
una puzza che toglie il fiato, per le strade di Partinico. «Molestie olfattive», le chiama l’ Agenzia Regionale per la Protezione dell’ Ambiente, come se il filtro del linguaggio burocratese potesse contenere il tanfo. Colpa della distilleria Bertolino. «La più grande d’ Europa!», ti spiegano, «La più grande d’ Europa!». Mica per fare certi vini pregiati che danno lustro alla Sicilia. Tutta roba di bassa qualità. Da usare per fare alcool. O da mettere come aggiunta nella benzina. Sono anni che in paese c’ è chi dà battaglia per far chiudere gli impianti. Niente da fare. Sventagliate di querele e di cause giudiziarie ma la tosta proprietaria, Antonina Bertolino, nipote del potentissimo e «’ ntisu» Don Giuseppe e cognata del pentito di mafia Angelo Siino, non molla di un millimetro. I più spiritosi dicono amaramente che in fondo la gente di Partinico ha nelle narici puzze che in passato furono ancora più asfissianti. Come l’ odore dei cadaveri dei soldati borbonici che, dopo la sconfitta di Calatafimi subita ad opera dei garibaldini, nel maggio del 1860, vennero sorpresi da un’ improvvisa fiammata di rivolta popolare. Scrive Michele Gulino ne «La Sicilia nel Risorgimento italiano» che se l’ erano tirata. Irrompendo nel paese, devastando le case, razziando tutto quello che trovavano, molestando le donne. Finché i partinicoti non si avventarono su un gruppo di militari e li fecero a pezzi: «I morti furono ammonticchiati in 3, 4 posti; alquanti, con una carretta, furono trasportati appena fuori il paese, dalla parte di Alcamo, e buttati in un fossato laterale; accatastatavi sopra alquanta legna, vi si diede fuoco, ardendo con essa anche i cadaveri». Conferma Carlo Agrati ne «I Mille nella storia e nella leggenda» che molti «furon scannati, bruciati, tagliati a pezzi, dati in pasto ai cani». Tanto che Garibaldi, scrive nella sua «Storia dei Mille» Cesare Abba, «attraversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi sull’ altro capo, in un bosco d’ olivi, mesto come non era ancora parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni soldatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei Partinicoti e salvati a stento da qualche buono: poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli». L’ Eroe dei due mondi, come racconta nella pagine seguenti Claudio Fracassi (autore de Il romanzo dei Mille), restò inorridito per quello scempio di italiani «straziati, sbranati dai loro propri fratelli...». E forse da quel suo «sbranati» nacque una leggenda che ogni tanto riaffiora. Quella che i partinicoti, nella loro furia selvaggia, si fossero spinti a «mangiare il cuore» di quei poveretti sorpresi in paese. Paese che, tra l’ altro, aveva fama di essere benestante e particolarmente pio se è vero, come spiega lo storico Giuseppe Casarrubea, che «vi erano a Partinico 17 chiese, 41 preti, 9 frati francescani e carmelitani». Oddio, non è che in sé la cosa voglia dire niente. Basti ricordare che il prete più conosciuto nel resto d’ Italia è stato Don Agostino Coppola, che celebrò il matrimonio fra Totò Riina e Antonietta Bagarella e, come si legge in «Le sacrestie di cosa nostra» di Vincenzo Ceruso, «aveva respirato l’ aria di mafia in famiglia fin da piccolo. Mafioso il padre, Salvatore, e conosciuti come mafiosi erano anche i fratelli Domenico e Giacomo. Uno degli zii si chiamava Francesco Paolo Coppola, meglio conosciuto come Frank "tre dita" Coppola, a causa di un difetto alla mano». Più ancora che il fetore della Bertolino e di certi ricordi antichi, però, toglie il fiato in questa terra bellissima e disperante a una mezz’ ora di macchina da Palermo, la sensazione di una sconfitta storica. Quella legata a un grande sognatore triestino che era riuscito a fare di Partinico una specie di laboratorio dove per anni bruciò la fiammella della speranza, forse ingenua, naif, illusoria d’ un riscatto della provincia palermitana, della Sicilia, del Mezzogiorno. Ci aveva scommesso davvero, su questa terra, Danilo Dolci. Ma se oggi giri per corso dei Mille o via principe Umberto chiedendo ai giovani chi era Danilo Dolci, ti guardano con la faccia un po’ così. E chi se lo ricorda quel testone triestino che dopo essersi fatto le ossa a Nomadelfia, la comunità fondata nel 1948 da don Zeno Saltini nell’ ex campo di concentramento di Fossoli, nel modenese, aveva deciso di venire quaggiù, nel paesino di Trappeto, da dove era partito suo padre Enrico, un ferroviere, per fondare una sua comunità che doveva fare crescere la gente strappandola alla miseria, alla paura, alle ambiguità dei rapporti con la mafia? Le immagini del «Borgo di Dio» voluto da Dolci, costruito su un terreno pagato allora 370 mila lire, edificato mattone per mattone grazie al lavoro di tanti volontari, mettono malinconia. Porte e finestre sfondate, solai spaccati, suppellettili a pezzi, cavi penzolanti, intonaci scrostati, mucchi di rottami. Ovunque ruggine e l’ acre olezzo del guano. Le erbacce si sono impossessate dei cortili, i graffitari hanno oltraggiato i muri con simboli osceni. Una desolazione. «Sentendo pezzi di vetro e mattoni rotti scricchiolare a ogni passo, curiosando dentro saloni devastati con le pareti scrostate e vandalizzate - ha scritto su Avvenire Alessandra Turrisi -, si fa fatica a immaginare che lì, in cima a una collinetta con vista mozzafiato sul golfo di Castellammare, fino a dodici anni fa premi Nobel e filosofi, poeti e pittori camminavano a braccetto, conversando alla pari con bambini e pescatori, contadini e analfabeti». Un reportage del 1962 di Mino Monicelli sull’ Europeo, racchiude il senso di quello che era questo posto: «Per secoli Partinico è stato un nome senza eco. Da 15 anni invece è uno dei punti caldi della Nazione. Venne alla ribalta, la prima volta, ai tempi del bandito Salvatore Giuliano: Montelepre è a cinque chilometri. La seconda, quando vi tornò, nel 1949, Frank Coppola, rispedito d’ oltreatlantico al paesello natio. La terza, il giorno in cui Danilo Dolci organizzò sulla trazzera vecchia (in Sicilia la trazzera è un viottolo che permette il passaggio di greggi sui campi, ndr) lo "sciopero alla rovescia" e i carabinieri lo chiusero nel carcere dell’ Ucciardone di Palermo. Oggi è di nuovo affollata di uomini di cultura, di giornalisti, di pacifisti. Comizi, conferenze stampa, manifestazioni, interviste, incontri di lavoro. E per il quartiere di Spine Sante, ingombro di galline, di rifiuti e di bambini, passano e ripassano i visitatori diretti al giaciglio di Danilo. C’ è Cesare Zavattini, c’ è Ignazio Buttitta, c’ è Bruno Zevi. venuto Vittorio Gassman. Ha scritto l’ abbé Pierre. Hanno telegrafato Bertrand Russell, Giorgio La Pira, Renato Guttuso, Guido Piovene, Alberto Moravia, Primo Levi.» Il fior fiore dell’ intelligenza italiana ed europea era periodicamente in ansia per la sorte di quell’ uomo: «Partinico fa notizia quando il santone digiuna». Lo chiamavano «il Gandhi italiano». Ogni tanto, quando scatenava una battaglia, attaccava un digiuno. Per la diga, soprattutto. Quella sullo Jato era la sua ossessione. Diceva a tutti che in dialetto siciliano non esiste neppure la parola «diga»: «Non potranno mai fare pressioni per avere una diga se non sanno nemmeno che cosa sia una diga». E spiegava che «il bacino del Carboi dispone di 36 milioni di metri cubi d’ acqua. Trenta milioni se ne vanno al mare inutilizzati. In compenso, a Corleone, su 16.478 abitanti, vi sono 98 carabinieri e non un solo assistente sociale». Un giorno gli scrisse Ferruccio Parri: «Sconsiglio il digiuno. Sono consigliabili invece agitazioni pubbliche che possano allarmare anche Roma». Bravo, commentava il triestino, «ma chi ne parla delle agitazioni pubbliche di Partinico»? E ammiccava al suo amico Monicelli: «Vedi, se digiuna un muratore o un pescatore lo chiudono in manicomio o in galera; ma se lo fa uno di noi, con gli occhiali, qualcosa, sia pure a fatica, si muove». Non lo potevano vedere in tanti, per queste battaglie. Il segretario della Dc di Partinico, Pino Blanda, diceva: «E’ solo uno pseudoscrittore che con manifestazioni ridicole, istrioniche, vuole speculare e fare pubblicità attorno al proprio nome». L’ uomo che guidava quanti si opponevano agli espropri e alla diga, Gaspare Centineo, mise in giro una voce infamante: «Ci risulta che al signor Dolci toccherà l’ 8% del costo della diga». Spiegava il reportage dell’ Europeo: «Oggi, nel comprensorio che beneficerà della diga, irrigare un ettaro costa dalle 50 mila alle 120 mila lire l’ anno. Dopo la costruzione della diga, la spesa scenderà a 15.900 lire l’ anno». Il giorno che Danilo morì, pieno di debiti, dopo essere stato candidato al Nobel per la Pace senza però essere mai stato del tutto compreso dai compaesani e dagli stessi ambienti religiosi nelle sue battaglie non violente all’ inseguimento del sogno della sua Città del sole, non sapevano neanche che cosa mettergli addosso. Aveva una tuta da ginnastica, ricorda il figlio Amico, oggi presidente del Centro per lo Sviluppo creativo. E gli misero la tuta. La bara la comprarono facendo una colletta. Quando alla diga, l’ hanno fatta. Ci hanno messo anni e anni, facendo impennare i costi in modo pazzesco con le perizie di variante, ma adesso c’ è. Solo che si è rivelata una cosa del tutto diversa da quella sognata. Dolci sognava che quell’ invaso enorme, da 65 milioni di metri cubi, avrebbe fatto diventare i 7 mila ettari della piana di Partinico una specie di California. Non aveva fatto bene i conti con quello che Leonardo Sciascia avrebbe chiamato «il contesto». E le cose sono ben presto cambiate. Quell’ acqua era necessaria a Palermo, e la diga è diventata piano piano il serbatoio idrico del capoluogo. Mentre le condotte destinate all’ irrigazione dei campi, sempre più malandate, versano in stato pietoso. Questo è Partinico. Un «territorio dormiente» punteggiato di agavi e fichi d’ india. Una bellezza selvaggia, sfregiata da obbrobri edilizi di rara crudeltà ambientale. Dove la violenza esplode quando meno te l’ aspetti, come un temporale improvviso. Accadde in quel maggio del 1860. Poi di nuovo nel 1943, dopo lo sbarco degli americani, quando fu preso d’ assalto l’ ufficio esattoriale. E un maresciallo dei carabinieri, ferito a morte, agonizzante sul sagrato della chiesa, che implorava soccorso, fu lasciato morire dissanguato. I padroni del paese impedirono a chiunque di soccorrerlo. Con la minaccia delle armi nessuno si potè avvicinare, neppure per portare al meschino un sorso d’ acqua. E’ rabbiosa, quando si scatena, la violenza. Non solo quella mafiosa. Nel 1986, per dire, duemila viticoltori delle cooperative e trasportatori si riversarono in Comune devastando la sala consiliare per far riaprire la Bertolino, la cui puzza si sente a chilometri e chilometri di distanza. Montelepre, il paese natale del bandito Salvatore Giuliano, è qui vicino. Terrasini, dove venne assassinato Peppino Impastato, pure. E così San Giuseppe Jato, dove fecero scalpore alcuni anni fa i risultati di un sondaggio condotto dalla curia di Monreale dal quale risultava che il 61% dei giovani pensava che la mafia «non è poi così male» e che un terzo degli abitanti era convinto di vivere in un «paese sicuro e tranquillo» (33%) «abitato da gente perbene» (31%) dove (31%) «ognuno si fa i fatti propri». Terreno di frontiera fra le cosche di Palermo e quelle di Trapani, regno di Matteo Messina Denaro, siamo in quella che per anni è stata la zona d’ influenza dei Vitale, detti «Fardazza». Uno dei clan più brutali e sanguinari di Cosa nostra: chi non era disposto a cedergli un terreno per far pascolare le mucche, semplicemente lo uccidevano. Come è accaduto a un funzionario del Banco di Sicilia, Giuseppe La Franca, al quale è stato intitolato l’ osservatorio per la legalità. Tutto tranquillo anche qui, a sentire certe testimonianze. Così tranquillo che a Partinico e negli altri 13 paesi della zona, denuncia il presidente dell’ Osservatorio per la legalità Giuseppe Di Trapani, «la polizia di notte ha una sola volante. La benzina è razionata perché non ci sono soldi, e anche i chilometri sono razionati». In compenso, c’ è la più alta densità di depositi bancari della Sicilia: un primato condiviso con la sola Bagheria. Qui si vendono più auto di grossa cilindrata. Qui ci sono centri commerciali per una domanda potenziale di 250 mila abitanti. Qui l’ emergenza rifiuti continua a crescere: la raccolta differenziata non esiste, i cittadini pagano (sulla carta, almeno) una tassa fra le più alte d’ Italia e il Comune deve all’ Ato di Palermo qualcosa come 8 milioni di euro di arretrati. Qui la disoccupazione ufficiale è al 20% e il 52% della popolazione attiva vive di stipendi pubblici. Una volta c’ era la manna delle Poste. Tutto merito del sottosegretario democristiano Giuseppe Avallone, che fece assumere da solo tremila postini. Tutti dei paesi del golfo, un migliaio di Partinico. Poi ci ha pensato il Comune. I dipendenti municipali, sono circa 500. Uno ogni 60 abitanti. Contro una media italiana di uno ogni 140. Un organico esagerato, finito grazie alla denuncia del sito www.partinico.info sulle prime pagine dei giornali: 19 impiegati all’ anagrafe, 20 alla biblioteca, 28 alla casa di riposo, nove ai servizi cimiteriali... Il tutto grazie al sistema Lsu. Anche Salvatore Lo Biundo, il sindaco dell’ Udc, è un ex lavoratore socialmente utile. Faceva il custode della villa comunale. Appena eletto, si è ritrovato tutti i problemi dei predecessori. Primo fra tutti il bilancio visto che Partinico risultava essere il più indebitato di tutti gli 82 indebitatissimi comuni della indebitata Provincia di Palermo. Un buco così profondo da spingere l’ Enel a tagliare un paio di volte la luce a un po’ di uffici. E da impedire al sindaco precedente, Giuseppe Motisi (che dopo essere stato eletto al ballottaggio si era ritrovato per colpa della legge elettorale insensata con 8 consiglieri a favore e 22 contro) di chiedere alla Cassa Depositi e Prestiti i soldi per fare la nuova caserma dei Carabinieri. Ma da cosa dipendevano questi buchi? Secondo la Corte dei Conti, dal modo scriteriato in cui sono stati per anni amministrati i pubblici denari. Esempi? Varie sentenze hanno condannato dipendenti comunali (meglio ex dipendenti) a risarcire danni erariali al Comune di Partinico causati da notifiche fatte in ritardo. Va detto che anche la giustizia contabile non è stata affatto puntuale: un verdetto è arrivato 20 anni dopo i fatti, un altro dopo 23... Va da sé che, davanti a tante lentezze repressive, l’ opera di convincimento dei cittadini perché paghino le bollette non è facile. Tanto più che il Comune, per motivi elettorali, queste bollette si era «dimenticato» per anni di spedirle. Tanto che a un certo punto, deciso un controllo, aveva scoperto che l’ elenco dei clienti allacciati non era stato aggiornato da illo tempore e che una famiglia su cinque non aveva mai pagato un centesimo. Insomma, sorridono quanti cercano di restare ottimisti, ci sarebbe proprio voluto l’ enorme Cristo benedicente che avrebbe dovuto dominare Partinico come quello che domina Rio de Janeiro. Si era offerto di regalarlo ai concittadini, tempo fa, lo zio d’ America Domenico Scaglione, un orfanello che dopo aver lasciato il seminario era emigrato negli Usa fino a salire al vertice della Chase Manhattan Bank. La statua di bronzo, stando al progetto, sarebbe stata alta venti metri più altri dieci di piedistallo e avrebbe dovuto svettare sul colle Cesarò. Ma, ahinoi, la cittadina fece mostra di non essere così entusiasta. E lo zio d’ America prese cappello: non mi meritate.
Rizzo Sergio, Stella Gian Antonio