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 2010  marzo 20 Sabato calendario

SE I CRITICI NON RIDONO

In vita, Flaiano dà alle stampe sei libri. Il primo, che s’intitola Tempo d’uccidere, lo scrive dietro le affettuose insistenze di Longanesi nel 1947. Con quel romanzo vince lo Strega. All’epoca, Flaiano ha 37 anni, e ha tutte le carte in regola per debuttare come romanziere. Molto giovane ha collaborato con articoli a Occidente, a Quadrivio, continuando poi a scrivere con frequenza su Oggi, Risorgimento liberale e Omnibus. Inoltre è un nome ormai noto nel cinema come soggettista e sceneggiatore. La figura di Flaiano come narratore è perfettamente definita, anche perché i suoi articoli di costume quasi sempre tendono al racconto, a organizzarsi come microstorie. Poi vengono Diario notturno, Una e una notte, Il gioco e il massacro, Ombre bianche.
Una produzione di così alta qualità, di così sottile, penetrante, ironica intelligenza, di così raffinata eleganza di scrittura, non ha avuto dalla maggior parte della critica quel serio riconoscimento che avrebbe ampiamente meritato. Anzi. I cinque grandi della critica, in quegli anni molto attivi su quotidiani e riviste, Pancrazi, De Robertis, Debenedetti, Contini e Cecchi ignorano costantemente l’opera di Flaiano. Nella Storia europea della letteratura italiana di Alberto Asor Rosa, a FlaIano sono dedicate quindici righe, però capovolgendone l’iter, partendo cioè dalla sua attività di sceneggiatore con Fellini, per concludere che Tempo di uccidere è colmo di astratte ambiguità.
Lucidamente, Flaiano si era autodefinito scrittore ”non incluso”. Le ragioni di questa indifferenza, o diffidenza, se preferite, ha tentato di spiegarle principalmente Maria Corti adducendo in primo luogo l’incapacità tutta italiana «di cogliere e assimilare ironia» e in secondo luogo la scarsissima diffusione, sempre in Italia, delle opere dei «memorialisti ironici e satirici». «Non riempiono gli scaffali», dice precisamente la Corti. Mi permetto di non essere d’accordo. Non sono gli italiani ad essere impermeabili all’ironia o alla satira. L’ironia e la satira hanno sempre fatto e continuano a fare parte integrante del tessuto della cultura più popolare, ne sono state anzi l’espressione più schietta e felice nel corso della nostra storia. Il rifiuto avviene non da parte degli italiani, ma da parte della togata critica italiana allorché la satira o l’ironia escono dalla suburra per salire nel, si fa per dire, tempio della letteratura. Già davanti alle porte trovano gli occhialuti cerberi custodi che negano l’accesso. Nel corso della nostra storia letteraria l’hanno concesso a pochissimi, ma una volta che li hanno fatti entrare, li hanno poi relegati in oscuri bugigattoli o in esigui pertugi nella speranza che presto vengano dimenticati. Detentori degli orientamenti letterari in Italia hanno sempre preferito far prevalere la letteratura penitenziale, quella dove lo scrittore soffre a scrivere e il lettore soffre a leggere. O quella dei narratori che inesaustamente trattano un solo tema, quello del loro ombelico.
Il secondo e forse più grave demerito di Flaiano ai loro occhi è stato di essere uno scrittore inclassificabile. Grandissima parte della critica italiana usa lavorare infatti con la stessa forma mentis degli entomologi che classificano gli insetti. Loro hanno le caselline belle e pronte. C’è la casellina del romanzo di genere, del romanzo di formazione, del romanzo sperimentale, del romanzo storico, del romanzo d’amore... E se un autore, per ricchezza e varietà e novità d’argomenti, tende a debordare, a non starci dentro, loro l’amputano con le loro cesoie critiche fino a che s’incaselli esattamente. L’insetto Flaiano dove lo possiamo classficiare? Si chiesero interdetti al suo apparire. Esaminarono il suo unico libro che potesse propriamente dirsi un romanzo. Certo, si dissero, ebbe successo di pubblico e di critica. Ma a rifletteci bene, rimangono aperti tutti gli interrogativi su come definirlo. Un’allegoria avventurosa? Una storia crudamente realistica? Un grottesco all’italiana? Un’eco di Camus? Un gioco dell’assurdo? No, bisognò arrendersi alla sua impossibilità di definizione. E allora, vista la difficoltà delle collocazione e considerato il disagio che apportava all’armonia dell’insieme, si posero la domanda se, in fondo in fondo, Flaiano fosse un insetto, un essere degno d’appartenere alla categoria degli insetti da loro classificati. E conclusero che era meglio era d’ignorarlo, tenendolo accuratamente in disparte.
C’è un altro e più sottile motivo di disagio davanti a Flaiano. La grandissima maggioranza della satira, sia essa popolare o colta, ha sempre avuto come bersaglio il potere e i potenti. E quindi ha trovato e trova una larga condivisione. Solo una piccolissima minoranza fa satira di costume, si rivolge cioè al vicino di casa, al suo simile, al suo stesso lettore. E peggio, talvolta s’indirizza verso chi fa lo stesso mestiere dell’autore. Cioè i letterati, gli scrittori, i critici, gli sceneggiatori, quelli che in parole vengono detti intellettuali. Personalmente, ritengo uno dei punti penetranti raggiunti da Flaiano la sua risposta alla domanda in quale paese sarebbe voluto nascere se non fosse stato italiano. Flaiano ribalta la domanda, dice che prima vuole accertarsi di essere veramente un italiano. E comincia ad analizzare il suo comportamento. Ne viene fuori un ritratto spietato degli italiani. Flaiano non concede indulgenze, spesso è feroce, elegantemente feroce verso gli altri e può permetterselo perché prima di tutto lo è verso se stesso, con malcelato dolore, con malcelato disperazione. Naturalmente, senza mai domandarsi fino a che punto gli altri avrebbero potuto reggere a continuare a guardarsi allo specchio che lui costantemente, crudelmente, teneva loro davanti.
E così gli altri, quando non ne hanno potuto più, o meglio, quando non hanno potuto più sopportare la visione di se stessi, o hanno voltato la testa da un’altra parte o hanno deciso di considerarlo alla stregua di un fool elisabettiano alla loro corte letteraria, scegliendo di sorridere alle battute che penetravano in profondità, ferivano e avrebbero dovuto farli vergognare o piangere. una forma di difesa ormai praticata da secoli, il ridimensionamento di uno scrittore per attutire, addomesticare, la forza d’impatto della sua spietatezza.
Flaiano è un unico, fuori da ogni graduatoria. Continua a essere vivo, a essere continuamente citato, ed è come se quelle parole le avesse dette il giorno avanti seduto al tavolo di un caffè, la sua scrittura non s’appanna, anzi, più passa il tempo e più le sue parole acquistano lucentezza e vigore. Forse perché nel frattempo la nostra società si è deteriorata in un qualcosa che è solo apparenza, mistificazione, teatrino delle volgarità e quindi le sue parole valgono come antidoto, pillole amarissime che però ti salvano il senso della vita. E anche quando non ci sarà più niente di nuovo di suo da pubblicare, egli continuerà a essere sempre presente, più che nella nostra letteratura, nella profondità della nostra coscienza.