MARCO AIME, La Stampa 20/3/2010, pagina XIII, 20 marzo 2010
MA IL LAVORO NON E’ NATURALE
Qualcuno lo aveva accusato di troppa ideologia, di essere un utopista, di essersi trasformato in una sorta di profeta che annunciava La fine del sogno occidentale (un saggio del 2000, ora riproposto da Eleuthera). E allora sembra di vederlo, Serge Latouche, togliersi il berretto da marinaio bretone, impugnare la penna come un timone di nave e dire: «ora vi faccio vedere io». Ed ecco nascere un nuovo libro tanto solido quanto raffinato, colto ed elegante che potrebbe apparire come una sorta di anti-manuale di economia.
Percorrendo tutte le tappe fondamentali del pensiero economico, disciplina che ha insegnato per anni all’Università di Paris XI, da Aristotele alla globalizzazione, Latouche ci accompagna lungo un sentiero spesso parallelo a quelli classici, rileggendo e spesso decostruendo molte delle teorie più celebri, con un approccio metodologico fondato su un diverso posizionamento dello studioso di fronte ai fatti dell’economia e dell’economico in sé. E fin dall’inizio emerge un’ambiguità di fondo tra l’economia come pratica reale e l’economia come campo teorico di studio dell’economico.
Prassi e teoria finiscono per diventare due facce della stessa medaglia, ponendo le basi delle diverse «invenzioni» smascherate da Latouche. L’autoreferenzialità degli studi economici crea un circuito chiuso, che influenzerà in modo radicale l’immaginario economico occidentale, fino a colonizzarlo completamente.
Tutto ruota attorno al perno della «naturalizzazione», del far apparire naturale e pertanto inevitabile ciò che naturale non è affatto, ma frutto di costruzione umana. Come nel caso del lavoro, invenzione della borghesia industriale utile a distinguere chi guadagna faticando da chi, come gli aristocratici, accaparrava risorse indebitamente e senza sforzo.
Non che il lavoro prima non esistesse, ma quell’attività di trasformare la natura a proprio uso e consumo non era ideologicamente connotata come elemento a se stante, faceva parte della vita, come le preghiere, l’amore e le molte alte espressioni della società umana. Sarà l’economia politica a trasformare il lavoro, basandosi sui tre fattori che Latouche ritiene necessari per il suo sviluppo: naturalismo, edonismo e individualismo.
Il primo serve a rendere ineluttabile il lavoro e l’economia stessa nel suo insieme, il secondo giustifica, e alla luce del primo, legittima la propensione al soddisfacimento di ogni bisogno, ottimizzando il rapporto fra costi e benefici. Infine, l’individualismo, che diventa il tratto più specifico dell’Occidente a partire dal Rinascimento, epoca in cui, secondo Latouche, nasce l’idea dell’economico. Questo individualismo è figlio dell’idea che l’umanità sia composta una pluralità di esseri identici, che si trovano di fronte a una natura fondamentalmente ostile. La sopravvivenza di questi esseri passa attraverso la lotta contro la natura e la sua trasformazione aggressiva. Lotta che abbiamo finito per chiamare «lavoro».
Lavorare per soddisfare l’amore per se stessi (self-love), ecco cosa spingerà Mandeville a esaltare i vizi quali motori dell’economia. Cinico e provocatore l’autore della Favola delle api, getta le basi di un’idea dell’economia che può tranquillamente fare a meno dell’etica e che si fonda sull’individualismo egoista. L’opulenza inglese è per lui la prova concreta della fecondità dell’egoismo. Se troppo cinismo risultava ostico da accettare, ecco accorrere in suo aiuto Hume e Smith a rivestirlo con «gli orpelli della morale». In particolare il secondo che «annegando il self-love nell’acqua di rose della simpatia», finirà per escludere la morale dell’economia, creando un doppio universo che le tiene separate.
Affilata, attenta, radicale e profonda l’analisi di Serge Latouche ripercorre le diverse fasi del pensiero economico con uno sguardo critico e originale. Attraverso questi spezzoni di storia ci offre numerosi e interessanti spunti di riflessioni su ciò che oggi accade attorno a noi, in campo economico e non solo.