JAMES WOOD, La Stampa 20/3/2010, pagina 23, 20 marzo 2010
IL BEL ROMANZO VIVE DI DETTAGLI
I romanzieri dovrebbero ringraziare Flaubert come i poeti ringraziano la primavera: con lui tutto rinasce. C’è davvero un’epoca pre- e un’epoca post-Flaubert. Fu lui a fissare una volta per tutte ciò che, per la maggior parte dei lettori e degli scrittori, è la narrazione realista moderna, e la sua influenza è quasi troppo familiare per essere visibile. A malapena notiamo, nella buona prosa, che essa caldeggia il dettaglio eloquente e brillante; che privilegia un alto grado di osservazione visiva; che mantiene una compostezza asentimentale e sa indietreggiare, come un bravo valletto, di fronte al commento superfluo; che giudica il bene e il male con neutralità; che cerca la verità, anche a costo di disgustarci; e che le impronte dell’autore su tutto ciò sono, paradossalmente, rintracciabili ma non visibili. Potete trovare l’uno o l’altro di questi caratteri in Defoe o Austen o Balzac, ma in nessuno li troverete tutti fino all’arrivo di Flaubert.
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La letteratura si differenzia dalla vita in questo: che la vita è piena di dettagli in modo amorfo, e raramente ci guida verso di essi, mentre la letteratura ci insegna a notare: a notare, per esempio, come spesso mia madre si strofini le labbra appena prima di darmi un bacio; che il diesel al minimo di un taxi londinese fa un rumore da trapano; che le vecchie giacche di cuoio mostrano striature bianche simili alle strisce di grasso delle fette di carne; come la neve fresca «scricchioli» sotto i piedi; come le braccia di un neonato siano così grasse da sembrare legate con lo spago (be’, gli altri sono miei, ma quest’ultimo esempio viene da Tolstoj!).
Questo tutoraggio è dialettico. La letteratura ci rende migliori osservatori della vita; noi mettiamo in pratica l’insegnamento nella vita stessa; in tal modo diventiamo più bravi a notare i dettagli quando leggiamo; così impariamo a leggere sempre meglio la vita. E via di questo passo. Basta insegnare letteratura per rendersi conto che la maggior parte dei giovani lettori è costituita da osservatori mediocri.
I miei stessi vecchi libri, sfrenatamente annotati vent’anni fa, da studente, mi dicono che allora usavo sottolineare, in cerca di approvazione, dettagli e immagini e metafore che oggi mi appaiono banalissimi, mentre passavo tranquillamente sopra a cose che mi sembrano oggi meravigliose. Noi cresciamo, come lettori, e a vent’anni si è relativamente vergini. Non si è ancora letto abbastanza perché la letteratura ci abbia insegnato a leggere davvero la letteratura.
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Riguardo i dettagli nella narrativa confesso un’ambivalenza. Li assaporo, li consumo, li medito. Difficilmente passa giorno senza che ritorni con la mente alla descrizione del sigaro del signor Rappaport in Bellow: «Il bianco fantasma della foglia con tutte le sue venature e un più tenue afrore». Ma troppi dettagli mi soffocano e una tradizione tipicamente postflaubertiana ne fa, ho l’impressione, un feticcio: mi sembra che la deferenza iperestetica verso i dettagli acuisca, in forma leggermente diversa, quella tensione fra autore e personaggio che abbiamo già esplorato.
Se è possibile narrare la storia del romanzo come lo sviluppo dello stile indiretto libero, è possibile narrarla anche come l’ascesa del dettaglio. Facciamo fatica a ricordare quanto a lungo la narrativa è stata schiava degli ideali neoclassici, che favorivano la formula e l’imitazione piuttosto che l’individuale e l’originale.
Naturalmente, il dettaglio originale e individuale non può mai essere soppresso: Pope e Defoe e anche Fielding sono pieni di ciò che Blake chiamava «minuti particolari». Ma è impossibile immaginare un romanziere dire nel 1770 quello che Flaubert disse a Maupassant nel 1870: «In ogni cosa c’è un lato inesplorato, perché siamo abituati a servirci degli occhi solo con il ricordo di ciò che è stato pensato prima di noi su quello che ora guardiamo. La minima cosa contiene un punto d’ignoto».
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Anni fa, mia moglie e io eravamo a un concerto della violinista Nadja Salerno-Sonnenberg. Durante un pacato ma difficile archeggio, lei aggrottò la fronte. Non si trattava della solita estatica smorfia del virtuoso: era l’espressione di un’irritazione improvvisa. Mia moglie e io ne demmo, nello stesso momento, due letture del tutto diverse. Più tardi Claire mi disse: «Ha aggrottato la fronte perché non stava eseguendo quel pezzo abbastanza bene». Io ho ribattuto: «No, ha aggrottato la fronte perché il pubblico faceva rumore».
Un buon romanziere avrebbe lasciato quella fronte aggrottarsi senza aggiungere nulla, e non avrebbe aggiunto nulla neanche ai nostri rivelatori commenti: che bisogno c’è di annegare nelle spiegazioni una scenetta così? Un dettaglio come questo, che ci presenta un personaggio ma si rifiuta di spiegarlo, ci rende scrittori, oltre che lettori; ci fa divenire quasi cocreatori dell’esistenza del personaggio.
Traduzione di Massimo Parizzi.