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 2010  marzo 25 Giovedì calendario

DALL’ORRORE ALLA LIBERT

«A me interessava solo lei, stare con lei, farmi una famiglia con lei, lasciare perdere tutto». Così Omar Favaro, nove anni fa, si confidava con lo psichiatra Gustavo Charmet, che più volte lo ha incontrato in carcere. La passione per Erika, quel rapporto stretto e distruttivo che li aveva allontanati dal mondo, gli aveva davvero fatto perdere tutto. Lo aveva portato a uccidere Susy Cassini, la madre di Erika, e poi il fratellino Gianluca.
Era il 21 febbraio 2001. Omar Favaro, allora diciassettenne, ha seguito la ragazza nella villetta dei genitori a Novi Ligure. Si è appostato con lei, un coltello a testa fra le mani, poi ha cominciato a colpire. Ha aggredito prima la madre della fidanzata, in cucina. È rimasto in salotto quando Erika è salita per mettere a tacere il fratellino che aveva provato a scendere le scale, attratto dalle urla della madre. Omar ha girato in tondo nella stanza della mattanza, diranno i rilievi eseguiti con il luminol: le sue scarpe hanno lasciato impronte circolari inconfondibili sul pavimento. Poi è salito anche lui al piano di sopra per aiutare la fidanzata. E ha partecipato all’aggressione di Gianluca: nei suoi guanti verrà trovato il dna di entrambe le vittime.
Nella colluttazione con il fratellino di Erika si è anche ferito, ha perso sangue tra il bagno e la cameretta: un’altra prova schiacciante sulla sua responsabilità del delitto, al pari di quella di Erika, che quella sera avrebbe voluto aspettare anche il padre, eliminare anche lui, punirlo perché aveva sempre osteggiato il loro rapporto.
A quel punto Omar si è fermato, ha rinunciato, ha fatto desistere anche lei. Dopo che le telecamere nascoste nella caserma dei carabinieri hanno intercettato le loro frasi, i loro gesti che mimavano coltellate, è stato il primo a confessare. Erika non l’ha mai fatto. «La mia preoccupazione era solo se le interessava fare sesso con me o stare con me… continuamente mi diceva di uccidere i suoi genitori ». Omar racconta anche questo, in carcere, allo psichiatra che lo ascolta, indirettamente lo interroga. Spiega che il progetto del delitto è maturato nei pomeriggi sempre uguali, trascorsi in casa con Erika, fatti di sesso e di droghe. Ed era nei momenti più intimi che Erika gli chiedeva di sterminare quella famiglia che ostacolava il loro rapporto.
La perizia psichiatrica sostiene che i due ragazzi hanno sperato di legarsi per sempre con un rito d’iniziazione. Hanno annientato una famiglia per poterne costruire una tutta loro: avevano bisogno di un legame forte, indissolubile, per superare le loro liti, la superficialità di quei pomeriggi trascorsi senza parlare, senza libri, senza interrogazioni da preparare.
C’è stata una sottomissione compiacente di Omar a Erika, ma l’ideazione del delitto è da attribuire a entrambi. Si erano giurati amore eterno, persino al momento dell’arresto si erano promessi che si sarebbero scritti per sempre. Ma non è stato così.
Omar ha subito capito che Erika voleva addossare su di lui ogni responsabilità e ha preso le distanze dalla ragazza: «Adesso sono contento che non ci vediamo più, anche se ho commesso un reato bruttissimo» dice ancora allo psichiatra Charmet. Fa una pausa, pensa, ripete: «Spero di non rivederla mai più. Magari sbaglio io, ma ho questa impressione: che lei mi abbia usato per il suo scopo». Lo psichiatra gli ribatte che si potrebbe dire altrettanto di lui. «Io non l’ho usata. I genitori erano un suo problema. Poteva risolverlo da sola». Dopo mesi di carcere ha la percezione di essere stato usato: «Mi sento un po’ stupido, un po’ scemo, un scemotto» ammette con lo psichiatra, che incontra anche Erika, senza vedere il minimo segno di ravvedimento. In una maglietta verde a maniche corte, i capelli scuri, un viso ancora da ragazzina, Erika in quegli stessi giorni parla di sua madre, del suo fratellino, come se nulla fosse successo.
Come se una strana disgrazia se li fosse portati via. Poi parla di Omar, ricorda il loro primo incontro, la loro passione: « stato il mio primo amore, mi piaceva fisicamente, aveva il caschettino. Poi si è tagliato i capelli corti, a me piaceva di più con il caschettino». Erika racconta il primo incontro alle giostre: «Mi piaceva quell’aria lì che aveva, di persona che si fa rispettare». Invece Omar aveva una coscienza opaca, secondo gli psichiatri, e così si è fatto soggiogare.
«Ci eravamo esclusi dalla realtà» ammette lui. «Se non fossi stato fuori dal mondo, non avrei fatto quello che ho fatto. Avrei chiesto consiglio a un amico, invece ero sempre e solo con lei, sempre isolati. Non so dire quanto c’entrasse il sesso, ma è vero che non volevamo intromissioni nel nostro rapporto».
Ha avuto nove anni per riflettere su quel che ha fatto: prima nel carcere minorile; poi, compiuti i 21 anni, nella casa circondariale di Asti, dove ha partecipato a gruppi di lavoro, ha sbobinato le sedute del consiglio regionale e scritto sul giornale del carcere. Nella sua cella ha affisso solo il poster del suo cane.
Il 16 febbraio 2007, a meno di sei anni dall’arresto e dal delitto, i suoi legali Vittorio Gatti e Lorenzo Repetti hanno chiesto il primo permesso premio per lui, negato dal magistrato di sorveglianza: fuori dal carcere «non avrebbe saputo utilizzare in modo costruttivo il tempo» e «in famiglia non avrebbe potuto essere accolto senza una rivisitazione critica dei legami con i propri genitori».
Omar era ancora socialmente pericoloso. Non era ancora il momento per rientrare in quella famiglia con cui, conoscendo Erika, aveva strappato ogni legame. «Quando ho conosciuto Erika, è come se avessi ucciso mia madre. Non esisteva più» aveva ammesso Omar parlando con i periti. Il rapporto con lei, con il padre, con la nonna doveva essere completamente ricostruito. Dopo 15 giorni, il tribunale di sorveglianza ha accolto però il ricorso presentato dai suoi legali e gli ha consentito di uscire non con permessi premio ma per seguire sedute psicoterapeutiche, «utilizzando un contesto esterno più spontaneo e responsabilizzante».
Omar è stato assegnato così al centro di salute mentale della Asl di Asti, per «potere arrivare a una rivisitazione critica del reato, della propria condotta antisociale». durante la psicoterapia che Omar ha rielaborato il delitto, preso piena consapevolezza degli errori, come già aveva iniziato a fare davanti agli psichiatri. «So che è assolutamente sbagliato quello che abbiamo fatto. Ho capito che Erika non è la ragazza per me: a lei non gliene fregava niente di me. Sono convinto che la distanza mi abbia fatto bene. Non so se ero matto o no, ma se non ci fosse stata la distanza non avrei capito con che persona avevo a che fare». Avrebbe voglia di vederla ancora una volta, ma «solo per dirle l’odio che provo nei suoi confronti». Un odio che con il tempo, con le sedute, è diventato indifferenza. «Mi ritengo ingenuo, stupido, uno scemotto. Se non ci avessero fermato, sarei rimasto con lei perché non avrei avuto modo di ragionare, ma ce l’- ho anche con me stesso, come ho fatto a non ragionare, a dire: stiamo ammazzando due persone?».
Agli incontri con gli psichiatri Omar è stato accompagnato da un educatore e da agenti sempre rispettosamente in borghese. Il percorso non è stato facile, l’obiettivo era ambizioso: doveva «lavorare in modo che possa avere un’assunzione chiara delle proprie responsabilità individuali che possa metterlo al sicuro rispetto alla messa in atto di comportamenti socialmente pericolosi».
Incontro dopo incontro, ha raggiunto l’obiettivo: nell’agosto del 2009 ha ottenuto il primo permesso premio. Per cinque volte, e per più giorni di seguito, ha lasciato il carcere e ricominciato a vivere in famiglia. Qualche mese dopo, in autunno, è stato ammesso al lavoro interno al carcere, come giardiniere, dopo avere preso il patentino europeo per il pc ma non il diploma in ragioneria.
Nel gennaio 2010 Omar è stato autorizzato a lavorare fuori dal carcere, come giardiniere presso le aree verdi del Comune di Asti. «L’affidabilità e la responsabilità già dimostrate nel lavoro interno al carcere, la condotta e le esperienze professionali paiono fornire garanzie per l’inserimento nel progetto di lavoro all’esterno » precisa una direttiva del ministero della Giustizia del 7 dicembre 2009. previsto anche uno stipendio di 600 euro al mese. «Grazie per avermi dato questa opportunità»: così Omar ha ringraziato Aldo Batoli, il responsabile tecnico del servizio giardini che ha subito accettato di prenderlo in carico.
«Gli educatori mi hanno detto che era un ragazzo affidabile, e in effetti non ha mai sgarrato una volta sugli orari» spiega Batoli. Alle 6.15, ogni mattina, è uscito dal carcere per iniziare alle 7.30 in punto il lavoro da giardiniere, pettorina arancione addosso e abbigliamento sportivo. «A parlargli è un ragazzo normale » continua Batoli. «Se non lo sai, non immagini quello che ha commesso. Tre o quattro volte, in questi mesi, ho provato a chiedergli come andava. Mi ha sempre risposto che andava bene, che era contento di poter uscire dal carcere». Soltanto in un’occasione Omar si è lasciato andare: «Mi ha detto che il delitto è avvenuto in un momento molto brutto della sua vita», ma non una parola di più.
Le sue giornate, negli ultimi mesi di semilibertà, sono state scandite dai ritmi imposti dal magistrato di sorveglianza: dopo il lavoro, alle 13.30 si è sempre recato a pranzo a casa dei genitori. Per tre giorni alla settimana ha frequentato il corso di scuola guida: deve ancora sostenere l’esame. Negli altri pomeriggi liberi ha fatto volontariato presso l’associazione Centro aiuto alla vita, come magazziniere. Nessuno, tranne i responsabili, sapeva chi fosse. Per tutti era un bravo ragazzo che confezionava pacchi per gli indigenti. « stato preciso, presente, ma non ha mai raccontato nulla del suo passato» dice la presidente. «Non siamo neppure riusciti a salutarlo: da quando è ritornato alla ribalta dei giornali non si è più presentato. Speriamo che torni a trovarci presto».
Dal 3 marzo Omar è definitivamente libero, non ha più alcun obbligo di fare volontariato, di lavorare nelle serre: avrebbe finito di scontare la pena il prossimo 17 aprile, ma gli è stata concessa la libertà anticipata. Gli sono stati sottratti 45 giorni ogni sei mesi di buona condotta in carcere, come previsto dall’ordinamento penitenziario. «Omar ha portato a termine il suo percorso rieducativo e può essere inserito a pieno titolo nella società» affermano i suoi legali, Gatti e Repetti. «Abbiamo utilizzato gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento penitenziario. La sua libertà non è altro che la piena attuazione del principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione». Il primo giorno di libertà Omar lo ha vissuto da prigioniero: dal carcere è uscito chiuso nel bagagliaio di un’auto, poi è scappato via, lontano da Asti per evitare le telecamere dei cronisti.
Ilaria Cavo