Paolo Granzotto, il Giornale 18/3/2010, pagina 46, 18 marzo 2010
LIBORIO ROMANO
Egregio dott. Granzotto, torno sul tema Risorgimento e Unità d’Italia. Dopo la presa di Gaeta da parte dell’esercito piemontese, i soldati dell’esercito sconfitto, sbandati e catturati, furono trattati alla stregua di malfattori e briganti e mandati a morire nelle prigioni, per non parlare del feroce comportamento del Generale Giovanni Govone. evidente che un simile modo di operare non poteva non nuocere al nuovo regno e lasciare, nell’opinione pubblica meridionale, indelebili segni. Mi interesserebbe ora conoscere la sua valutazione di un personaggio che la storia d’Italia ha voluto totalmente annullare. Mi riferisco a Liborio Romano che, solo, ebbe l’ardire di rappresentare a Cavour, con un suo memorandum, quali fossero i veri problemi del meridione nel nuovo regno, quali le diversità tra Nord e Sud e quali, di conseguenza, avrebbero dovuto essere le azioni del governo, affinché non si creasse quella che ancor oggi chiamiamo «questione meridionale».
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Don Liborio è quello che si definisce un personaggio controverso, caro Castricone. Molto controverso. In un suo recente studio, lo storico Nico Perrone lo eleva (o abbassa, secondo i punti di vista) a inventore del trasformismo e in quella veste si prestò di buonissimo grado a essere lo strumento di Cavour per la conquista di Napoli. Non so se ciò possa essere ascritto a suo merito. Lo «strumento», infatti, era al momento un ministro di Francesco I e se forse è eccessivo parlare di tradimento, certo non diede tutta questa gran prova di lealtà. Sono stato a Patù, città natale di Liborio Romano. La sua tomba è spoglia, una pietra tinteggiata a calce sulla quale è tracciato a pennello il suo nome. Nient’altro. Sulla facciata del palazzotto di famiglia si legge questa lapide: «Nella dolorosa maturazione degli italici destini - Liborio Romano - persecuzione carcere esilio - serenamente accettò - l’anima affisa alla futura patria grande - nella attesa ora della riscossa - ad altissime responsabilità assurto - seppe - sprezzando lusinghe ambizioni calunnie - preservare la sua terra da cruente lotte fratricide». Va bene che nelle iscrizioni in memoria si tende sempre a volar alto, ma quel «sprezzando lusinghe ambizioni calunnie» pare davvero eccessivo. Liborio Romano giocò a lungo su due tavoli sempre puntando su quello che riteneva - nell’alternarsi di fortune e rovesci - dovesse vincere. Gli andò bene. Lasciando Napoli per Gaeta Francesco I gli disse: «Don Libo’, guardateve ”o cuollo». E Romano: «Starò accorto che la testa ci rimanga attaccata il più a lungo possibile, Maestà». Tanto fu accorto che neanche mezz’ora dopo il fedele, fedelissimo alla Corona don Liborio telegrafava all’«invittissimo generale» Garibaldi sollecitandolo «a giungere in fretta ché la popolazione tutta attende il Salvatore con la maggior impazienza per salutarlo redentore d’Italia».
Giunto a Napoli in treno, l’«invittissimo» fece il suo ingresso trionfale in città scortato da don Liborio in compagnia di Tore ”e Criscienzo, Jossa, Capuano, Mele e Marianna la Sangiovannara, ovvero dal vertice della camorra. Come primo atto di governo Garibaldi confermò Romano nell’incarico di ministro degli Interni (o di Polizia, com’era detto), ruolo che mantenne fino al gennaio del 1861. Una volta eletto deputato del primo Parlamento del Regno d’Italia si aspettava da Cavour, del quale era stato l’agente, qualche riconoscimento ministeriale. Ma il Conte preferì tenerlo alla larga (forse anche a causa del memorandum al quale lei si riferisce, caro Castricone. Cavour era il «tessitore» e poco gli interessava la cura della tela una volta in magazzino). Molto deluso, sentendosi tradito, scaduto il mandato parlamentare, don Liborio Romano si ritirò nella sua Patù morendovi nel luglio del 1867.