Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 18 Giovedì calendario

MINA DA OLTRE 35 MILIARDI SUI CONTI DI REGIONI, PROVINCE E MUNICIPI

Non c’è solo Milano. Quella della finanza derivata è una mina che potrebbe esplodere da un momento all’altro, mettendo in ginocchio l’intera finanza pubblica italiana. Stiamo parlando, del resto, di ben 35,6 miliardi di euro, pari a circa un terzo dello stock globale di debito (che a fine 2008, secondo la Banca d’Italia, ammontava a 106,6 miliardi). Si tratta di operazioni di ristrutturazione del debito che fanno capo a 594 tra regioni (che da sole valgono più di 5 miliardi), province e comuni, stando all’ultimo monitoraggio del Tesoro, che si riferisce al 2008 e registra un corposo aumento sul 2007. Nel 2009 dovrebbe essere stata registrata una controtendenza, con i sindaci dei comuni più piccoli in fuga dalla finanza spericolata.
Ma la maggior parte dei contratti è tuttora in vigore. Gli enti pubblici - a fronte di vincoli di bilancio sempre più rigidi e di una riduzione dei trasferimenti dal governo centrale - si erano orientati verso strumenti che permettevano di ottenere liquidità per le spese senza gravare sul debito. Le operazioni fanno capo ad almeno 594 amministrazioni. Molte di queste, che gli enti locali hanno compiuto a partire dal 2001 (erano autorizzate dalla legge finanziaria 2002) sono o stanno per finire sotto inchiesta: sotto esame gli swap di 40 comuni, due regioni (Piemonte e Toscana) e una provincia (Brindisi), per oltre i 9 miliardi. Nel mirino ci sono sempre le banche, come nel caso di Milano. Nell’85-90% dei casi, l’istituto che ha chiuso il contratto (guadagnandoci) ha fatto anche da advisor, cioè ha suggerito il prodotto derivato.
Attenzione, però, a non buttare il bambino con l’acqua sporca. «Servono vincoli non divieti», spiega la senatrice Cinzia Bonfrisco, sintetizzando le conclusioni dell’indagine della commissione Finanze, «vincoli che garantiscano la valutazione dell’ente circa la sostenibilità economica e non solo finanziaria del contratto, la certificazione della banca che attesti di aver valutato adeguatamente la competenza degli amministratori (non basterà più l’autocertificazione) e l’effettiva imparzialità degli advisor».
Fari puntati anche sul Tesoro. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel giugno 2008 ha vietato la sottoscrizione di derivati in tutti gli enti locali e territoriali. Per i nuovi contratti si attende da un paio d’anni un misterioso decreto che fatica a vedere la luce.
Francesco De Dominici

VENDETTA PER I COMUNI TRUFFATI: BANCHE ALLA SBARRA-
Per la prima volta in Europa parte un processo contro i derivati. Ieri il gip milanese Simone Luerti, nell’inchiesta relativa al Comune di Milano, ha rinviato a giudizio non solo undici manager, tra cui il figlio del governatore della Campania Bassolino, e due funzionari, Giorgio Porta, ex city manager del Comune di Milano e Mauro Mauri, esperto incaricato della ristrutturazione del debito. Ma anche le quattro banche coinvolte: Jp Morgan, Deutsche Bank, la filiale londinese di Ubs e Depfa Bank. La richiesta del pm Alfredo Robledo è stata accolta in pieno. Di conseguenza il prossimo 6 maggio gli imputati dovranno rispondere di truffa aggravata ai danni di Palazzo Marino per la vendita di strumenti derivati e in un certo senso dimostrare che non solo non c’è stato alcun dolo, ma anche nessun illecito profitto. Al contrario secondo l’accusa, dall’emissione dei derivati per un importo superiore al miliardo e 600 milioni gli imputati avrebbero illecitamente fatto guadagnare alle banche circa 100 milioni ai danni del Comune. Non solo, per la prima volta in un’inchiesta giudiziaria, gli inquirenti avrebbero individuato l’esatto istante in cui è maturato il profitto e al tempo stesso il percorso illecito della plusvalenza.
«Questa è la tappa di un percorso, è un passaggio delicato», si è limitato a dire il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, titolare dell’inchiesta. Lasciando intendere che il caso giudiziario potrebbe rappresentare un importante precedente in tutta Italia. Come anche recentemente la Corte dei Conti e il Tesoro hanno fatto notare. Sono 594 tra Regioni, Province e Comuni gli enti che hanno sottoscritto tali strumenti. Mentre l’esposizione verso istituti di credito supera i 35 miliardi di euro.
Ciò non significa che il processo non rischi di essere in salita vista la materia ipertecnica. Ieri Ubs ha diramato una nota: «La banca riconferma che nessuna truffa è stata perpetrata da parte di Ubs né di alcuno dei propri esponenti ai danni del Comune di Milano». In sostanza la banca svizzera oltre a negare profitti illeciti spiega che l’udienza preliminare è una sede in cui non viene trattato «in pieno il merito della causa». Tanto che tiene a sottolineare che tali operazioni sono state autonomamente valutate dal Comune, «sia sotto il profilo finanziario, sia per l’aspetto legale, dai competenti organi del Comune e da professionisti esterni (compreso un primario studio legale) e da una commissione nominata dal Comune». Di fatto però già lo scorso agosto Ubs e le altre tre banche hanno in un certo senso riconosciuto la serietà dell’accusa. Quando ritirando l’istanza di dissequestro hanno versato alla procura 101 milioni di euro. Esattamente la cifra contestata come illecito. Il gruzzoletto è poi finito nella filiale milanese della Bcc di Carate Brianza. E la scelta non è stata affatto casuale. Segno, come fanno notare ambienti vicini alla procura, che i big del sistema bancario scricchiolano e gli inquirenti preferiscono affidarsi a un istituto lontano dalle grandi operazioni di ingegneria finanziaria.E non è solo un problema di swap o finanza articolata. Gli uffici dei due più grandi gruppi italiani, Unicredit e Intesa, sono stati perquisiti la scorsa estate alla ricerca di prodotti finanziari -secondo l’accusa - immessi sul mercato per eludere le tasse.
Claudio Antonelli