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 2010  marzo 17 Mercoledì calendario

IL RISORGIMENTO LA RIVOLUZIONE PRIMA DI MARX

A chi interessa ancora il Risorgimento? Non una sua celebrazione stantia, retorica, patriottarda, ma il frutto di una memoria viva, fervida anche quando critica? Se c’è una parola che si aggira come una meteora alla deriva nel dibattito cultural-politico degli ultimi anni, questa è proprio «Risorgimento». Il prossimo 5 maggio verranno celebrati i 150 dalla Spedizione dei Mille, preludio decisivo alla proclamazione dell’Unità. Eppure non poteva esserci momento più infelice per pensare a delle celebrazioni. Il Risorgimento è giudicato, in modo dozzinale, come la causa prima dell’annessione al Paese tutto della «questione meridionale»; anche se, già negli anni Qquaranta dell’Ottocento, contro chi voleva limitare (molto moderatamente) l’unificazione italiana all’annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte (senza esprimere una parola contro i regimi reazionari che stringevano tutta l’Italia centro-meridionale), Mazzini si espresse duramente contro il «concettuccio dell’Italia del Nord» - parziale, corporativo, miope.
Mazzini sapeva bene che quel «concettuccio» aveva una forte presa nel ventre molle delle élites del paese, e anche se non poteva prevederlo con certezza poteva almeno intuire che sarebbe stato a lungo covato tra i pensieri, le ansie, i risentimenti di una buona parte della società italiana. Chissà però se avrebbe potuto prevedere che agli inizi del ventunesimo secolo, una forza di governo che osteggia direttamente e indirettamente il Risorgimento e l’unità d’Italia avrebbe occupato il ministero degli interni, importanti governi regionali e soprattutto il motore delle riforme istituzionali.
 un destino amaro, quello del Risorgimento. Da sempre accusato di essere «troppo» o «troppo poco», sovversivo, minoritario da una parte o di aver dimenticato la «questione sociale » dall’altra, si ritrova oggi stretto in una morsa terribile. Da una parte vilipeso da ogni forza che trae alimento dallo sgretolamento del paese, dalla morte dello Stato, dal collasso di ogni parvenza di interesse generale, calunniato da tutte le reazioni possibili e immaginabili. Dall’altro difeso con armi spuntate, con la difesa del tricolore e dei Savoia, di Cavour e dei Bersaglieri, una retorica che allontana anziché avvicinare. Congela, anziché riscaldare. Eppure se c’è qualcosa di interessante nell’Ottocento italiano è il confronto serrato, acceso, spesso virulento tra moderati e democratici, tra savoiardi e repubblicani.
Il Risorgimento oggi è del tutto dimenticato. Ma c’è un Risorgimento ancora più oscurato. Non quello delle corti, delle annessioni, delle trame diplomatiche e del continuismo cavouriano, ma quello di un’intera generazione che si abbeverò all’idea di rivoluzione e di insurrezione, e che bruciò i propri anni migliori sull’altare di un desiderio di liberazione che dovesse essere innanzitutto auto-liberazione. Un Risorgimento rivoluzionario che è stato faro in Europa e che ha posto al centro della propria azione un’idea che avrebbe avuto lungo corso nel secolo successivo, nel Novecento in tutte le lotte anti-colonialiste: non c’è libertà senza indipendenza; e non c’è indipendenza senza un sufficiente grado di autonomia che può essere raggiunto solo nel superamento della frantumazione territoriale. Proviamo raccogliere alcuni brandelli dell’altro Risorgimento.
«La vecchia Europa è morente. Le vecchie cose accennano a dileguarsi. Tutte quelle grandi istituzioni politiche o religiose, giganti dell’evo medio, che per lo spazio di sei o otto secoli si contesero la dominazione del mondo, minacciano visibilmente rovina: il tempo della loro vita è consunto.» Così scrive Mazzini in un suo testo del 1834, Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa. E bastano queste righe per capire appieno il fascino che ha esercitato su migliaia di rivoluzionari, esuli, rifugiati, dissidenti politici, italiani e non solo. Il Manifesto del partito comunista verrà scritto quattordici anni dopo. Qui abbiamo lo stesso tono perentorio e apocalittico, la stessa idea del dileguarsi, del crollo di quanto è marcio. Mazzini fu un acuto interprete del risveglio delle rivoluzioni nazionali, del proseguimento della Rivoluzione francese contro la stessa realpolitik della Francia, il sognatore di un progetto grandioso: un continente liberato dai suoi tiranni, dal vecchio autoritarismo morente, e retto da nuove alleanze tra popoli.
Non si può capire a pieno il pathos rivoluzionario di Mazzini, e dei repubblicani italiani, senza porre attenzione al loro cosmopolitismo. Non solo cosmopolitismo di vita: Mazzini che vive per gran parte della sua vita in esilio a Londra, e dialoga, discute si scontra con Stuart Mill, Marx, Bakunin. Ma cosmopolitismo delle idee: la solidarietà con gli altri moti rivoluzionari.
Mazzini può far oggi sorridere per le sue idee su «Dio e popolo », il suo moralismo apparirà angusto, il rapporto tra doveri e diritti antiquato. Produce sgomento la lunga serie di fallimenti delle iniziative rivoluzionarie da lui esortate. Eppure, tra le migliaia di pagine che ci ha lasciato, sprizzano ancora oggi delle intuizioni acutissime, e dei capolavori stilistici. Mazzini dà il meglio di sé nell’invettiva ad personam, ogni qualvolta fa emergere – negli avversari – la contraddizione stridente tra quanto affermato e come si è agito, la miopia, la stupidità, il tradimento dei propri ideali, e intravede nella persona criticata non un uomo da demolire ma solo la punta dell’iceberg di comportamenti, vizi, contorcimenti più largamente diffusi.
Un esempio straordinario è la famosa lettera A Francesco Crispi (1864), indirizzata al transfuga dalla sinistra alla destra, l’ex mazziniano e garibaldino che diventa il più acceso sostenitore della realpolitik, e che poi come noto sarebbe diventato primo ministro su posizioni conservatrici, fino a reprimere duramente i fasci siciliani. Nel momento in cui si schiera con la monarchia, con la bandiera «Italia una e Vittorio Emanuele», lasciando cadere l’altra bandiera, «Italia e popolo», quella dei repubblicani, dei radicali, di Pisacane, Mazzini decide di scrivergli una lettera aperta che diventa un lungo saggio, uno scritto «corsaro» sulla militanza politica in Italia e i suoi protagonisti: «Voi siete, come oggi barbaramente dicono, opportunista. Voi vedete oggi la monarchia forte, noi deboli; un esercito, che voi credete monarchico, e ch’io credo, come tutti gli eserciti, semplicemente governativo; un’Italia officiale, forte d’una vasta rete d’impiegati, devoti per amore di lucro, ed una moltitudine di seguaci ciechi, muti, servili, tra per abitudine d’obbedienza passiva, tra per paura, se mai dicessero di non credere che altri farà, d’essere chiamati a fare. Unitario sincero, ma educato a tendenze politiche ch’io potrei chiamare materialistiche, ma chiamerò, con vocabolo meno irritante, guicciardinesche, voi porgete omaggio alla forza o a un sembiante di forza. Voi trovate che la monarchia potrebbe agevolmente, volendo, fare l’Italia; e l’accettate, siccome mezzo all’intento. Se domani ci vedeste forti, sareste nuovamente con noi».
Torniamo al Mazzini degli anni Trenta e Quaranta, quello che il grande scrittore russo Herzen definì «una potenza» temuta da tutti i governi europei. In uno dei suoi scritti più celebri Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia, pubblicato per la prima volta nella «Giovine Italia» a Marsiglia nel 1833, Mazzini parla della «guerra per bande», della necessità di quella che nel corso del Novecento è stata definita più volte «guerra di guerriglia». Come noto, gran parte degli insuccessi mazziniani nacque dal presupposto di dare per scontato che «il popolo» si ribellasse all’unisono ai primi colpi di fucile, nel non capire che una cosa è sfogare il proprio odio di oppressi a parole, altra cosa è mettere a repentaglio la propria vita. Ma poiché in queste pagine non stiamo ricordando il Mazzini stratega (spesso mediocre), bensì il Mazzini scrittore (spesso lungimirante) ci soffermeremo su una pagina in cui sembra afferrare l’enigma di ogni processo rivoluzionario: «Disordine e rivoluzione sono a principio due cose inseparabili». E ancora: «Nel passaggio improvviso dal servaggio alla libertà, tra il riposo d’inerzia che la tirannide impone e l’ordine che governa gli Stati liberi, v’è un periodo di confusione e di quasi anarchia, un’epoca di fermento, di moto convulso, di oscillazione terribile, alla quale nessuna forza può sottrarsi. il caos che precede la creazione. Questo periodo sarà forse più lungo per noi che abbiamo più cagioni di divisioni, e maggiori difficoltà. Consumare rapidamente quanto è possibile quel periodo, è intento a qualunque intende a governare la rivoluzione».
Ma l’unità di intenti è difficilissima da raggiungere. Mazzini sa bene che non c’è cosa più ardua che riannodare corde disparse – culturalmente, socialmente, economicamente. Fervente idealista che sovente tende ad appianare nei ragionamenti e nella pratica del suo «apostolato» la ruvidezza della vita concreta, qui Mazzini è invece estremamente realista. Condividere l’ebbrezza delle barricate, o delle trame sovversive, non è ancora sufficiente a mettere in piedi una rivoluzione. «Governare la rivoluzione» è la barriera insormontabile contro cui va a cozzare chiunque provi, abbia provato e proverà a forzare le leggi della Storia. Per questo aggiunge: «Rivoluzione è mutamento: mutamento radicale, necessario importante; perché per quanto sia concorde e generale la volontà che genera il tentativo, v’è pur sempre nei ranghi sociali, e più nell’esercito dove l’armonia è condizione vitale, un numero d’elementi che convien rimovere o disporre altrimenti, una quantità d’uomini che a procedere vigorosamente sicuri nell’opera rivoluzionaria è d’uopo sbalzare dal luogo in cui stanno.».
Non è un caso se queste pagine sono state rilette durante la Resistenza. Se mi ci sono soffermato è perché mi pare che mettano in mostra uno dei nodi irrisolti del nostro rapporto con il Risorgimento. Hanno drammaticamente a che fare con la sua dimenticanza, e con il congelamento della sua memoria. Qui ci sono un mucchio di parole ormai ritenute impronunciabili: rivoluzione, insurrezione, mutamento radicale, perfino qualcosa che abbia a che fare con l’epurazione. Insomma, la presenza-assenza del padre della patria Mazzini spiega molto del nostro controverso rapporto con il Risorgimento. Il punto da capire è che questa presenza-assenza non nasce oggi: al contrario, è nata con la proclamazione del Regno d’Italia. Il congelamento del Risorgimento è stato già operato 150 anni fa, nel momento il cui si è deciso di amputare dalla storia patria il suo potenziale sovversivo. Un conto è analizzarlo criticamente, storicizzarlo, altro è amputarlo del tutto. Scegliendo la seconda soluzione, è venuta giù tutta l’impalcatura. Perché lamentarsi allora che qualche politico uscito dalle taverne voglia pulirsi il culo con il tricolore?