Gian Enrico Rusconi, La Stampa 18/3/2010, pagina 35, 18 marzo 2010
BISMARCK E CAVOUR, DUE MITI SCADUTI?
Cavour e Bismarck sono due miti scaduti? I protagonisti delle unità nazionali italiana e tedesca, che avevano significativi tratti di convergenza e di divergenza, sono usciti dalla memoria collettiva. Ma in modi molto differenti. Ripensarli ci è molto utile per capire da dove veniamo.
Nel caso tedesco, la Germania di oggi non vuole avere più nulla da spartire con quella della sua fondazione bismarckiana. Ha come punto di riferimento storico ideale la rivoluzione democratica (fallita) del 1848, non le vittorie militari del 1866 e del 1870, grazie alle quali Bismarck ha unificato dall’alto con «il ferro e il fuoco» la nazione tedesca contro l’Austria e la Francia.
Ma l’Italia di oggi si riconosce forse ancora in Cavour e come? Non parlo delle celebrazioni ufficiali, dei contributi professorali, ma della cultura corrente e in particolare quella dei partiti che occupano il sistema mediatico. Che rimane di Cavour nel volgare revisionismo storico dei leghisti e dei cattolici clericali, che gli fanno da controcanto? Nell’indifferenza storica delle forze di maggioranza? Potrebbero avanzare qualche pretesa nei confronti dell’eredità cavouriana coloro che rivendicano politicamente posizioni di «centro moderato», ma non ne hanno la grinta innovatrice. E soprattutto non sono laici come Cavour. Infine nel Partito democratico (e post-comunista) si continua a simpatizzare più ancora con il garibaldinismo e il mazzinianesimo che non con il cavourismo. In fondo non gli hanno mai perdonato il continuismo istituzionale.
Eppure, ci sono alcune dichiarazioni di Cavour sul confronto parlamentare («non mi sento mai tanto debole come quando le Camere sono chiuse») e sulla sua diffidenza verso «la dittatura democratica» (e pensava al popolarissimo Garibaldi!) che sono di una attualità impressionante. Sono state pronunciate da un politico profondamente liberale, rigorosamente costituzionale, che pure talvolta sapeva essere così spregiudicato nel manovrare i parlamentari da essere accusato di «cesarismo».
Diverso - dicevamo - è il caso tedesco. Dopo la catastrofe originata dal nazismo, si è avuta una letteratura storica che ha parlato polemicamente di una continuità storica diretta «da Bismarck a Hitler». C’è voluto un lungo processo riflessivo per guadagnare un giudizio storico critico più equilibrato circa questa continuità. Ma alla fine il mito bismarckiano che aveva forgiato l’identità di milioni di tedeschi si è dissolto irreversibilmente. Lo si è visto ancora nel novembre nel 2009. Nel corso delle festose manifestazioni popolari e negli innumerevoli convegni per l’anniversario della caduta del muro di Berlino - e quindi della ri-unificazione tedesca - Bismarck, fondatore dell’unità storica della Germania, è stato ignorato. Sarebbe stato imbarazzante ricordarlo soltanto per prenderne le distanze.
Tornando al nostro Cavour, non ha senso cercare di reinventare un «mito» capace di immediata identificazione collettiva. Ma c’è spazio per una rivalutazione riflessiva a partire da due suoi tratti fondamentali: un convinto liberalismo costituzionale in una dinamica politica, che doveva fare i conti con il democratismo rivoluzionario e il clericalismo anti-nazionale, e un deciso realismo politico nei rapporti e nelle alleanze internazionali.
Vorrei concludere con un ultimo punto. Una certa letteratura risorgimentale agiografica ha rimosso la realtà della «guerra tra italiani», di fatto innescata da Cavour, interpretandola esclusivamente come lotta per l’indipendenza dalla potenza straniera occupante, l’Austria, che opprimeva gli italiani tutti. In realtà c’erano italiani che ritenevano - a torto o ragione - che l’Austria garantisse la legittimità degli Stati piccoli e medi: il Regno delle Due Sicilie e lo stesso Stato della Chiesa. Erano due interpretazioni inconciliabili che sono state risolte di fatto con le armi «tra italiani».
Su questo sfondo si pone la questione di una ipotetica struttura federale dell’Italia unita. Occorre premettere che non ha senso oggi proiettare indietro, antistoricamente, al 1861 i problemi di gestione decentrata o di federalismo fiscale che sono tipici di una società modernizzata come l’attuale, creata anche grazie al centralismo unitario del passato. Ma non c’è dubbio che nell’Italia post-unitaria abbia prevalso una opzione centralista eccessiva, con la promozione di uno sviluppo squilibrato appesantito dal burocratismo.
Ma l’alternativa non era affatto una Confederazione italiana, alternativa a un regno unitario, quale era caldamente raccomandata da Napoleone III, che si atteggiava a protettore dell’Italia risorgimentale. A parte le malcelate intenzioni di egemonia francese, l’idea di una Confederazione - comprendente un’Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda, alcune regioni centrali come territorio pontificio, e al Sud il Regno delle Due Sicilie - era un’idea avanzata ancora nel 1860 per scongiurare un ipotetico cataclisma rivoluzionario (temuto con la spedizione dei Mille) che avrebbe avuto imprevedibili complicazioni internazionali. Ma era soprattutto la neutralizzazione preventiva di una virtuale potenza nazionale italiana, grande e unita.
Bismarck invece sosteneva l’idea opposta di un’Italia unita e forte in grado di contrastare tanto l’Austria quanto la Francia. Naturalmente né l’imperatore dei francesi né il presidente del governo prussiano avevano a cuore la forma istituzionale o amministrativa del paese bensì la sua collocazione strategico-militare.
Il «buon governo» (di cui ci preoccupiamo oggi quando parliamo di federalismo) ricadeva esclusivamente sulle spalle della nuova classe politica italiana, qualunque fosse la forma istituzionale. La sua prova non è stata felice. Ma non è un buon motivo per ripudiare quanto di buono ha fatto e ci ha lasciato.