Fabio Isman, Il Messaggero 17/3/2010, 17 marzo 2010
GOYA- Un grande scrittore spagnolo vivente, Antonio Muñoz Molina, spiega: «Sono quasi 200 anni che stiamo imparando da lui, e la lezione non finisce mai»: perché «è nostro predecessore, e nostro contemporaneo»; tanti non hanno saputo prescindere da lui: Manet, Picasso, Soutine, Courbet, Rouault, Klinger, Klee, Miro, fino a Bacon, Grosz, Sassu, Ensor, Nolde, Dix, Guttuso e Music
GOYA- Un grande scrittore spagnolo vivente, Antonio Muñoz Molina, spiega: «Sono quasi 200 anni che stiamo imparando da lui, e la lezione non finisce mai»: perché «è nostro predecessore, e nostro contemporaneo»; tanti non hanno saputo prescindere da lui: Manet, Picasso, Soutine, Courbet, Rouault, Klinger, Klee, Miro, fino a Bacon, Grosz, Sassu, Ensor, Nolde, Dix, Guttuso e Music. Francisco José de Goya y Lucientes (1746 – 1828) visto non come il pittore di Maye più o meno desnude, il ritrattista di grandi famiglie più o meno reali (solo una di questi capolavori fuori di Spagna o da un museo: lo possiede la Fondazione Magnani Rocca di Parma), o, ancora, l’autore delle ”pitture nere” nella Quinta del Sordo, tutte peraltro intrasportabili e inamovibili: ma come il maestro, l’ispiratore di tante generazioni future, «né romantico né neoclassico» in un’epoca in cui questi stili dominavano (lo dice Claudio Strinati): questo è il tema di Goya e il mondo moderno, fino al 27 giugno a Milano, Palazzo Reale, a cura di Valeriano Bozal e Concepción Lomba, con l’organizzazione di MondoMostre e un dovizioso catalogo edito da Skira. Sono 184 opere di Goya e altri 44 artisti, provenienti da 62 collezioni e musei di 15 Paesi: con prestiti importanti, quasi per sottolineare la presidenza spagnola dell’Unione Europea. Sono una riflessione sul Goya meno noto, però più anticipatore; che guarda alla vita quotidiana; ai disastri della guerra e alla violenza; che nei ritratti non cela la patina del tempo; che dà una spinta al genere del comico e del grottesco; che ben prima di Munch, urla la più profonda disperazione dell’uomo. Una mostra ordinata non per tempi, ma per generi: appunto quelli che abbiamo detto; e che, non indulgendo a compassioni o commiserazioni, racconta la vera nostra natura: di allora, e certamente di oggi. Un sottile fil rouge lega La decapitazione del maestro spagnolo (e le sue Fucilazioni, non esposte, da cui prendono sia Manet sia Picasso) a tanti orrori raccontati da autori contemporanei; il suo Cristo nell’orto degli Ulivi potrebbe anche essere un personaggio dei Disastri della guerra, una serie di 80 incisioni del 1810, dai titoli spesso ultimativi: Non c’è rimedio, Seppellire e tacere, Se ne approfittano, così come Zoran Music chiama Non siamo gli ultimi un’immensa pila di cadaveri, dipinta negli anni più bui dell’ex Jugoslavia, 1973. Forse perché non esistono troppe differenze tra le guerre d’Indipendenza (quella di Goya) e Civile (quella di Picasso) in Spagna, e tutte le altre, ahinoi, di ogni tempo ed a qualsiasi latitudine. L’esordio dell’esposizione è folgorante: 10 ritratti, uno più bello dell’altro. Poi, l’Autoritratto del Prado si misura con quelli (degli Uffizi) di Dèlacroix e David; e la carrellata prosegue con quello di Schönberg, una Donna di Picasso ed una di Soutine, e Ronald Brooks Kitaj, morto tre anni or sono, che si eterna nel 1980, per spiegare subito l’orizzonte temporale dell’impresa. L’allestimento (Cesare Mari e Panstudio) è su due tonalità di grigio, con velari e finti muri per chiudere i troppo ampi spazi dei saloni. E così, auspici Re Carlo IV e la Regina Maria Luisa di Parma, tra i protettori di Goya che li ritrae, si arriva ai temi d’ogni giorno, Il muratore ubriaco, L’arrotino, La lattaia, dove qualcuno vede un’anticipazione dell’Impressionismo e i cui stilemi si ritrovano in molti, perfino in Victor Hugo quando dipinge e non scrive. già il tempo del grottesco: sublimi, ad esempio, il Frate converso con i pattini, o un sacerdote sulla fune e Si romperà la corda; materiali che serviranno alle Maschere di Nolde, alle Varietà dell’amore di Ensor, all’Artide arredato di Klee, ai Fiori del male di Rouault. Le guerre di Goya anticipano le Premonizioni della Guerra civile di Dalì (e in ciascuno di noi è stampato il ricordo della picassiana Guernica), fino all’Anschluss di Kokoschka, o anche al Trionfo della morte di Guttuso. Sui 50 anni, Goya diventa sordo; e le sue premonizioni del Novecento, se possibile, si infittiscono ancora più. Cessa di essere il pittore di Corte: è un uomo angosciato, che conosce tutti i peggiori istinti della natura umana, e li vede dove altri non vogliono vederli; paure, mostri, ira, violenza. Era il Pintor de Cámara: l’ultima commissione reale è del 1817: verrà giubilato, vivrà soprattutto in Francia, e si dedicherà sempre più a quelle che egli stesso chiama Follie. La follia di una libertà recuperata. Nelle Corride, lo si ritrova dalla parte del toro; nei Disastri della guerra, da quella dei più infimi. E a chi verrà dopo, certo gli spunti non mancheranno, perché il mostruoso non riguarda il regno della fantasia, ma è insito nel ”noi” più profondo. Se Maya è Olympia di Manet, Goya è maestro per le generazioni, con la sua «espressione potentissima» (ancora Strinati); quasi un cantore reale che riscopre la vita di ogni giorno, la descrive, e tanti apprenderanno da lui i modi per raccontarla. Questo resta, oggi a noi, quando Re, Corti e fasti sono ormai tramontati da un pezzo: la poesia, e l’orrore, del quotidiano. In mostra a Milano, lo si legge benissimo. Nel Palazzo che, guarda caso, durante una remota ma indimenticata occupazione, fu la sede del governatorato proprio spagnolo. Che, alla fine, tutto si tenga?