Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 17/3/2010, 17 marzo 2010
IL PARADOSSO DI ALBERTO. L’ALIBI DELLA FOTO SEGRETE
Doveva essere il processo fondato sulla memoria digitale, che come la scatola nera di un aereo finito nell’oceano avrebbe dovuto restituire la soluzione di tutti i misteri. La memoria oscena contenuta nel computer di Alberto Stasi era una massa spaventosa di file, roba da collezionista di bric-à-brac e paccottiglia ad alto efficiente pornografico, una «propensione maniacale», la definirà il pm. questa ossessione morbosa per il ciarpame erotico e similerotico d’ogni genere (classificato in cartelle e sottocartelle dai nomi inequivocabili: «virgin», «orgy», «mature», «forced») che avrebbe dovuto incastrare l’ex bocconiano di buona famiglia. Invece il paradosso ha voluto che fosse la sua vergogna a scagionarlo: dunque ciò che un computer non potrà mai contenere. Sostiene il giudice: se Alberto fosse stato l’assassino, avrebbe fatto valere immediatamente un alibi di ferro: appena sveglio, dopo le 9.36, mi sono messo a guardare, come ogni mattina, il solito pornaccio. Invece non lo dice per pudore, perché se ne vergogna. Ci vogliono mesi affinché le tracce di quella visione emergano, grazie alla perizia informatica dell’ottobre 2009. Sostiene il giudice: se Stasi avesse voluto crearsi un alibi, non si sarebbe certo dedicato, dopo aver ucciso la sua fidanzata, a un’attività di cui poi vergognarsi. Fatto sta che quella mattina il ragazzo si gode per una mezz’ora il suo video e poi si concentra sulla tesi per un paio d’ore. In definitiva, è stata un’omissione per pudore a discolparlo. Uno dei pochissimi sentimenti che abbiano qualcosa di umano in un mare di bestialità (secondo l’accusa, pedopornografia compresa). E che mare: 156 mila file (156 mila!). Ogni mattina, l’imbarazzo della scelta. Più che un vaso di Pandora o una scatola nera, un pozzo nero. Ma un pozzo nero non è un’arma del delitto.
Doveva essere il processo fondato sull’infallibilità della memoria digitale, e invece la presunta precisione scientifica del riscontro informatico ha improvvisamente assunto toni comico-grotteschi per non dire ridicoli, quando si è saputo che i carabinieri, andando a rovistare dentro l’hard-disk di Stasi, non facevano altro che cancellare ogni traccia. Il giudice parla ora, nelle motivazioni, di «effetti devastanti», i 39 mila accessi hanno fatto sparire il 74 per cento dei materiali visibili. Un’infinità di numeri e percentuali. Insomma, il caso Garlasco è l’unica sommatoria di cifre altissime (156 mila file + 39 mila accessi + 857 giorni di attesa dall’omicidio alla sentenza + una richiesta di condanna a trent’anni + migliaia di sopralluoghi, perizie, controperizie e simulazioni) con risultato pari a zero.