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 2010  marzo 18 Giovedì calendario

Il Made (prevalentemente) in Italy, l’etichetta della discordia - La commissione Industria del Senato ha approvato un disegno di legge sul Made in Italy per abbigliamento, calzature, pelle e divani

Il Made (prevalentemente) in Italy, l’etichetta della discordia - La commissione Industria del Senato ha approvato un disegno di legge sul Made in Italy per abbigliamento, calzature, pelle e divani. Roberto Giovannini: «La norma istituisce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti della pelletteria e del calzaturiero che evidenzi il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e ne assicuri la tracciabilità. Si potranno fregiare del marchio Made in Italy solo i prodotti finiti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo ”prevalentemente” nel territorio nazionale. Gli altri dovranno portare l’indicazione dello Stato di provenienza. L’etichetta dovrà indicare che le lavorazioni hanno rispettato le norme vigenti in materia di lavoro di sicurezza dei prodotti, l’esclusione dell’impiego di minori nella produzione, il rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali per l’ambiente». Per mancata o scorretta etichettatura sono previste sanzioni dai dieci ai 50mila euro. Se la violazione è reiterata, da uno a sette anni di carcere. [1] L’etichetta che certifica l’italianità andrà a scarpe, abiti e divani in pelle ”prevalentemente” prodotti nel nostro Paese. «Per ”prevalentemente” s’intendono almeno due passaggi della lavorazione effettuati in Italia. Un divano o un paio di scarpe potranno essere definiti italiani a tutti gli effetti anche se da noi sono stati solo assemblati e rifiniti». [1] Il settore moda rappresenta il 4% del Pil italiano. Vi lavorano 57mila aziende con circa 650mila addetti. La quota dell’export è del 51%. [2] Nel 2008 il valore dei capi d’abbigliamento italiani esportati è stato di 13,7 milioni di euro, cifra stabile rispetto al 2007 e in crescita rispetto al 2006, quando il valore globale delle esportazioni di settore era stato di 12 milioni. Tra gennaio e agosto 2009 il valore complessivo delle esportazioni italiane è diminuito di 1,4 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2008. [3] Molti prodotti dell’industria del lusso nascono nei capannoni gestiti da imprenditori cinesi, dove gli operai lavorano fino a 16 ore al giorno. I prestigiosi committenti ne sono a conoscenza? Franca Sevaltici: «Di regola le griffe appaltano il lavoro a un’azienda italiana che a sua volta subappalta a un’impresa cinese. […] Spesso gli oggetti griffati, che il consumatore paga a caro prezzo credendo che escano dalle mani di raffinati artigiani italiani dalle grandi tradizioni, nascono in laboratori gestiti da cinesi che non esitano a sfruttare operai clandestini». [4] «Se non stiamo attenti il Made in Italy ce lo giochiamo un po’ alla volta» (Diego Della Valle). [5] Prezzo di una piattina di Prada in via Montenapoleone a Milano: 440 euro. La stessa borsetta in nylon e pelle in un laboratorio artigianale di Arzano: 28 euro. [5] I cinesi hanno anche inventato un modello di business che non esisteva. Dario Di Vico: «Nel gergo si chiama ”pronto moda”, 500 aziende che copiano stili e catene di successo, producono a velocità turbo lavorando sette giorni a settimana e venti ore al giorno, per poi venderli sui mercati europei a prezzi mostruosi. […] Questo modello di business vince grazie a due condizioni: i cinesi comprano sempre di più le stoffe direttamente nel loro Paese (se le acquistassero dai tessitori di Prato spenderebbero il doppio) e la loro filiera produttiva ha a monte una miriade di laboratori conto-terzisti che sfruttano il lavoro di connazionali arrivati con visto turistico a tre mesi». [6] A Prato vivono 5mila cinesi regolari e altrettanti clandestini: su 180mila abitanti rappresentato il 15% della popolazione residente. Alcuni sono diventati ricchissimi, la maggior parte non lo sono. Negli ultimi tre mesi le forze dell’ordine hanno sequestrato loro 47 aziende. [1] Per respirare il sistema moda italiano avrebbe bisogno di almeno due miliardi di euro. Secondo lo studio M2 - Meridiano Moda, elaborato dalla Fondazione European House Ambrosetti e Unioncamere, se si escludono i grandi marchi, il rapporto tra incidenza dei mezzi propri e capitale investito nella moda è lontano da quota 20%, che garantisce l’equilibrio finanziario. [7] Per la moda italiana il 2010 sarà un anno complicato. A febbraio il tribunale di Milano ha dichiarato fallita Burani Design Holding, la società di diritto olandese a capo del Mariella Burani Fashion Group. [8] In primavera, con la messa all’asta dei marchi Ferré e Malo, partirà la riorganizzazione della Itierre, la società più importante della It Holding, in amministrazione straordinaria da un anno. [9] La Lvmh di Bernard Arnault avrebbe invece messo gli occhi su Valentino Fashion Group. Antonio Vanuzzo: «Il bilancio del gruppo, controllato dal fondo Permira, ha evidenziato un rosso di quasi 600 milioni di euro nei primi nove mesi del 2009 a fronte di un patrimonio netto di 985 milioni di euro. Da qui l’esigenza di un aumento di capitale, approvato lo scorso 23 dicembre, per 635 milioni di euro. Gli investimenti sarebbero tuttavia congelati per via di un indebitamento pari a sette volte l’utile, troppo vicino al limite massimo tollerato dai creditori, fissato a otto volte l’ebitda». Il 2010 sarà un anno incerto per Versace, che potrebbe essere acquistato da Gucci entro dicembre, e di pausa per Prada, che la scorsa estate ha rinegoziato il debito di 200 milioni di euro con Intesa Sanpaolo, proprietario del 5% della cassaforte Prada Holding Bv. La partita più importante dell’anno riguarderà la possibile vendita di Armani. In pole position ci sarebbero Hermès e alcuni fondi americani di private equity. [10] «L’alta moda nel 2010? Mantiene viva l’artigianalità del Made in Italy» (Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli, direttori creativi Valentino Fashion Group). [11] (a cura di Marzia Amico) Note: [1] Roberto Giovannini, La Stampa 13/3; [2] Giusi Ferré, Oggi 3/3; [3] La Stampa 13/3; [4] Franca Selvatici, la Repubblica 3/12/2007; [5] Sabrina Giannini, Report, Raitre 2/12/2007; [6] Dario Di Vico, Corriere della Sera 25/1; [7] Rita Fatiguso, Il Sole 24 Ore 26/2; [8] Il Sole 24 Ore 11/2; [9] MF Milano Finanza 27/2; [10] Antonio Vanuzzo, Il Riformista 9/1; [11] Alessandro Argentieri, Marie Claire gennaio.