Francesca Montorfano, Corriere della Sera 17/03/2010 Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 17/03/2010 Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 17/03/2010, 17 marzo 2010
3 articoli - GOYA. L’ANIMA IN CHIAROSCURO - Nato più di 250 anni fa, eppure così straordinariamente attuale, così vicino a noi
3 articoli - GOYA. L’ANIMA IN CHIAROSCURO - Nato più di 250 anni fa, eppure così straordinariamente attuale, così vicino a noi. Capace di dialogare con le dimensioni più profonde del nostro essere, l’angoscia e la paura, l’irrazionalità e il sogno, e poi trasformarle in immagini con quella sua pittura così immediata e impetuosa, così carica di energia, con quelle pennellate che sembrano quasi aggredire la tela. Goya, il pittore che ha il coraggio di celebrare la vita in tutte le sue manifestazioni, che esplora l’io senza sfuggire alla storia. Goya, il primo dei moderni, precursore di modi e temi che dopo di lui dilagheranno in tutta Europa tra l’Otto e il Novecento. questo il volto del grande aragonese messo in luce dalla mostra di Palazzo Reale che ricostruisce il dialogo tra il pittore spagnolo più acclamato della sua epoca e gli artisti moderni e contemporanei che a lui hanno guardato e da lui hanno tratto ispirazione, impressionisti e simbolisti, espressionisti e surrealisti. Un volto «impensabile» per chi, come lui, aveva avvertito tutta la suggestione del rococò radioso di Tiepolo e Giaquinto, pittori della classe dirigente che parlavano di benessere e bellezza, paesaggi bucolici e pittoreschi costumi. Anche lui, Francisco Goya y Lucientes, aveva saputo interpretare con grazia e levità il mondo galante della Spagna settecentesca e poi accumulato commissioni sempre più prestigiose fino a diventare, nel 1789, pittore ufficiale del re. Ma poi qualcosa era cambiato, complice anche quella sordità che lo aveva messo di fronte ai suoi incubi personali, e aveva cominciato a guardare con occhi nuovi quello che nessuno prima di lui aveva visto o voluto vedere, quella realtà fatta di soprusi e sopraffazioni, di ignoranza e superstizione di un mondo uscito dalle rovine dell’Ancien Régime e che da lì a poco avrebbe conosciuto l’invasione napoleonica e la successiva, cruenta restaurazione. Il dramma della quotidianità, derelitti ed emarginati, mostri e streghe, balli in maschera e decapitazioni diventano adesso i protagonisti dell’opera di Goya, che si fa sempre più lucida e spietata, che si trasforma in denuncia sociale, anticipando contraddizioni e fantasmi del mondo moderno, come raccontano in un emozionante faccia a faccia i più di 180 dipinti, disegni e incisioni provenienti da tutto il mondo ed esposti a Milano nella mostra curata da Valeriano Bozal e Concepción Lomba, tra imassimi studiosi spagnoli di Goya, con la collaborazione di Claudio Strinati per la parte italiana. Ecco allora i suoi ritratti farsi più autentici e intensi, più carichi di umanità, come quelli di Asensio Juliá e dell’attore Isidoro Maiquez, come la deliziosa Contessa di Haro o l’Autoritratto del 1815 con il volto segnato dal passare del tempo, accostati ad opere di Delacroix e David, di Bacon, Saura e Picasso. Non solo nobili e potenti o sfarzose rappresentazioni di corte compaiono adesso sulla tela, ma storpi e mendicanti, lavandaie e contadine, damerini e ballerini, frati e vittime dell’Inquisizione, grande teatro umano che ispirò Honoré Daumier e Victor Hugo, Kirchner e Nolde. Più avanti la scena si tinge di altri colori, è il mondo della notte a impadronirsi dell’universo di Goya. L’irrazionale, il grottesco e la follia della vita, l’orrore per i fatti di sangue che sconvolgono il Paese e di cui l’artista è angosciato testimone deformano paesaggi e personaggi: è il tempo delle Follie e dei «Disastri della guerra», delle Fucilazioni e della Carica dei mamelucchi in cui Goya raggiunge i vertici della sua pittura e che tanta eco avranno nell’opera di Miró e Klee, di Soutine e Dalí, di Pollock, De Kooning e Solana, di Guttuso e Picasso. «Con il suo anticlassicismo assoluto, con l’impatto della violenza sull’arte, Goya è stato il pittore che più di ogni altro ha influenzato le correnti a venire, in ogni loro forma, la fotografia, il fumetto, il cinema, come lo stesso premio Oscar, quell’Hurt Locker di Kathryn Bigelow dalle scene sconvolgenti», precisa Claudio Strinati. «Goya aveva individuato il male nel corpo che si deforma, nei tratti fisici stravolti dalla fatica di vivere, come dopo di lui faranno Grosz e Otto Dix con le loro tragiche caricature, Rouault con le sue immagini spettrali e Picasso, affascinato da alcuni aspetti del suo grottesco. Vicini a Goya sono anche Guttuso con il suo messaggio politico, morale e Giacometti, che abbozza appena le forme, che le scava e consuma, arrivando quasi a dissolverle, riducendole all’essenzialità». Sembra che appartenga alla nostra epoca Goya o, meglio ancora, a un tempo senza tempo. Perché le sue immagini fanno parte del mondo di noi tutti. Perché il suo grido di dolore contro l’ingiustizia è diventato un’icona universale. Francesca Montorfano E UNA «LATTAIA DI BORDEAUX» GLI CONSEGNO’ LA GLORIA ETERNA - Qualche mese prima della morte, a 82 anni, Goya dipinse uno dei suoi quadri più importanti: «La lattaia di Bordeaux», così detta perché realizzata nell’esilio della città francese. Il soggetto non ha niente di drammatico né di psicologico: si tratta semplicemente del ritratto di una di quelle ragazze che tutte le mattine si mettevano in viaggio a piedi dalla campagna per portare il latte fresco in città. Eppure lo stesso Goya sapeva di aver scritto con questo quadro il suo testamento di pittore, quello che l’avrebbe consacrato e legittimato ad entrare in eterno, al di là dei cambiamenti del gusto e delle mode, nella comunità spirituale dei grandi artisti della storia. Ne era così consapevole che raccomandò alla moglie Leocadia di non venderlo mai per meno di un’oncia d’oro. Non sfuggiva, a Goya, che con «La lattaia» egli sarebbe entrato nella linea di discendenza diretta di Tiziano, Velázquez, Rembrandt, cioè di quei campioni della pittura di tocco, stesa con spavalderia e senza disegno, direttamente sulla tela. Sapeva di misurarsi alla pari con loro e di aprire, anche lui, una nuova straordinaria porta della storia dell’arte, spingendosi oltre ciò che Velázquez aveva già suggerito nei bagliori di luce in cui deflagrava il vestito di seta dell’ultimo ritratto dell’infanta Margherita. Non poteva ancora conoscerne il nome, ma quella nuova stagione dell’arte si sarebbe chiamata Impressionismo. Ne «La lattaia», infatti, il colore tiene ancora a malapena insieme la forma la quale appare sul punto di varcare i limiti dell’astrazione sotto gli effetti di una luce chiara così vibrante che sembra sfaldarsi. Pare quasi di essere davanti a una tela di Renoir per la quale Albert Wolff, critico di «Le Figaro», spese queste parole: «Cercate di spiegare al signor Renoir che il torso non è un ammasso di carne in stato di decomposizione». Goya aveva preso la via dell’esilio nel 1824, quando Ferdinando VII aveva abolito la Costituzione del 1820 e costretto molti liberali a lasciare la Spagna. Col pretesto di recarsi a Plombières per le cure termali, si stabilì a Bordeaux dove già si erano raccolti molti suoi amici compromessi con la monarchia, fra i quali la contessa di Chincon, Ferrer e Moratín. In una lettera, quest’ultimo descriveva l’amico pittore così: «Goya arrivò, sordo, vecchio, maldestro e debole, senza sapere una parola di francese, e senza un domestico, ma contentissimo e desideroso di vedere il mondo». Fu a Bordeaux che Goya sperimentò per la prima volta la nuova tecnica della litografia con la quale realizzò una tauromachia nota con il titolo di «Tori di Bordeaux». Disegnava in continuazione, incapace di fermarsi e, come si vede in un commovente disegno conservato al Prado, sotto l’immagine di un vecchio che procede con le stampelle, scrisse: «Aún, aprendo», ancora imparo. Lavorava aiutato dal giovane allievo Antonio Brugada, anche lui esiliato. Fu a questi, presente nelle ultime ore di vita, che Goya confidò: «In natura il colore non esiste e neppure la linea: non c’è altro che sole e ombre. Datemi un pezzo di carbone e vi farò un quadro». il testamento di un grande pittore che ha raggiunto le altezze supreme della sua arte proprio nell’incisione, tecnica che comporta, appunto, la descrizione del mondo con il solo nero dell’inchiostro sottratto al bianco della carta. Ma è anche, nello stesso tempo, un riconoscimento per metafora delle contraddizioni in bianco e nero della sua stessa vita: Goya amò le idee liberali pur non rinunciando all’incarico di pittore di corte e alla pensione accordatagli da quel Ferdinando VII che aveva abolito la Costituzione. Ritrasse il generale Palafox, eroico difensore di Saragozza contro i francesi, ma appena rientrato a Madrid giurò fedeltà al nuovo re Giuseppe Bonaparte, cosa che a sua volta non gli impedì, dopo pochi mesi, di dipingere il ritratto del duca di Wellington, comandante delle truppe inglesi in Spagna, lo stesso che sconfiggerà Napoleone a Waterloo. Il bianco e il nero furono i poli estremi entro cui si svolsero la vita e l’opera di Goya. Come scrisse Rafael Alberti, grande conoscitore del pittore: «La dolcezza, lo stupro, il riso, la violenza, il sorriso, il sangue, il patibolo, la festa. C’è un diavolo dormiente che insegue con un coltello la luce e le tenebre». Francesca Bonazzoli «NOI SPAGNOLI CON CAINO NEL CUORE. LUI LO SVELO’» - Li separano due secoli, li unisce un’immutabile convinzione: oggi, come allora, la grandezza spagnola nasconde un cuore fragile e duro, festoso e cupo; e saltuariamente incline al fratricidio. Duecento anni dopo che il colore si è asciugato sulle tele di Francisco de Goya, lo scrittore Arturo Perez-Reverte sembra percepire a livello quasi epidermico il malumore, talvolta l’indignazione, spesso l’ironia e la malinconia con cui l’artista aragonese agitava i suoi pennelli: «Nessuno meglio di lui riflette l’essenza e lo spirito della storia interiore, oltre a quella esteriore, degli spagnoli – afferma con sicurezza l’autore del Capitano Alatriste ”. Goya aveva uno sguardo analitico, critico sulla Spagna. Non era un mero pittore cortigiano, non si limitava a passeggiare per i giardini del palazzo. Svolgeva professionalmente il suo lavoro di amabile ritrattista di costume, della Spagna pittoresca e della classe dirigente del Paese. Ma aveva sviluppato anche uno sguardo profondamente critico e idee avanzate che, ora, diremmo di sinistra e che all’epoca erano progressiste o liberali. Nel bene e nel male, Goya aveva una visione lucida del carattere degli spagnoli». E che cosa vedeva? «Nei suoi quadri risaltano chiaramente l’incultura, la barbarie e la violenza che si manifestavano di frequente tra gli spagnoli. Ideologicamente e spiritualmente, simpatizzava con i francesi, che negli anni della guerra d’indipendenza erano i nemici storici. Perciò finisce esiliato in Francia, come molti altri intellettuali. Ricordo la terribile, triste descrizione del suo amico drammaturgo, Leandro Fernandez de Moratín, pure lui esule in Francia. Scriveva: ieri a Bordeaux è arrivato Goya, sordo, vecchio, debole e senza conoscere una parola di francese. C’è tutto il dramma di un artista i cui quadri, man mano che invecchia, diventano scuri, disperati, tenebrosi». Il più emblematico di tutti? «Sceglierei Il Colosso, nonostante il recente dibattito fra esperti sulla reale paternità dell’opera. Che, secondo me, invece è proprio sua. Ne sono convinto, da ammiratore. Perché soltanto Goya poteva avere in quel momento un’immagine tanto perspicace della Spagna. Rappresenta una festa, una romeria, come diciamo noi, interrotta da un terribile gigante, che con i suoi passi fa tremare la terra e interrompe la baldoria. Mi fa pensare ai terremoti di Haiti e, in Italia, ai grandi disastri naturali ma, soprattutto, all’irresponsabilità del popolo che s’illude di sfuggire al suo destino. un’opera terribile e molto, molto moderna. Una denuncia di quella Spagna ignorante, festaiola, folcloristica e irresponsabile, incapace di reagire quando arrivano i colpi del destino. Così era, ai suoi occhi, la Spagna reazionaria, in guerra con i francesi e con il progresso. Fino a perdere il treno della modernità». In uno dei suoi ultimi libri, «Il pittore di battaglie», il protagonista s’ispira a un altro quadro di Goya, «Duello a bastonate»: ancora una metafora? «Sì, un’altra dimostrazione della lungimiranza di Goya. Che evidenzia il Caino celato nell’animo degli spagnoli. Proprio come le sue incisioni, "I disastri della guerra", anche quel quadro simbolizza l’orrore del pittore per lo scontro fratricida fra liberali e conservatori. Mostra l’essenza di tutte le guerre civili combattute in Spagna in questi ultimi due-tre secoli. I due contadini, ritratti in tutta la loro rozzezza, mentre si prendono a bastonate nel fango, interpretano inconsapevolmente la cieca stupidità di un combattimento mutuamente suicida». C’è una spiegazione alla bipolarità spagnola? A queste due Spagne che si fronteggiano nei secoli senza arrivare, quasi mai, a un compromesso? «Credo che sia un problema di cultura. L’Italia avrà altri difetti: la mafia, la corruzione. Però possiede qualche cosa che io chiamo il patriottismo culturale: anche il contadino più analfabeta e il mafioso più abbietto sentono l’orgoglio di appartenere a un Paese con una lunga storia. Questo territorio comune, simile a un patio condiviso tra vicini litigiosi, porta alla consapevolezza che, in fin dei conti, si possa sempre raggiungere un’intesa, trovare un accordo. la filosofia solidale del vivi e lascia vivere. In Spagna non esiste, o è più complicata. La contrapposizione interna è più frequente delle guerre esterne. Goya, un riformista contrario però alla violenza, se ne rende conto. Per questo la Spagna lo mette di cattivo umore». Tori sì, tori no: anche la corrida divide gli spagnoli. Quando Goya ritrae la fiesta nazionale lo fa con spirito critico o celebrativo? «La polemica era già aperta ai suoi tempi. Si parlava anche allora di proibire la corrida. Goya non si pronuncia: i suoi disegni sono descrittivi, non implicano un giudizio. Ma suppongo che fosse contrario: doveva sembrargli un’ulteriore manifestazione di brutalità». Elisabetta Rosaspina