ANTONIO MONDA, la Repubblica 14/3/2010, 14 marzo 2010
ALTMAN
Quando Robert Altman morì, nel novembre 2006, Scorsese dichiarò che l´eredità di questo grande regista americano era, prima ancora che nei film che ci ha lasciato, «nel suo spirito». Altman aveva compiuto da poco ottantuno anni, e se ne era andato pochi mesi dopo aver ricevuto un Oscar alla carriera da quella stessa Academy che gli aveva negato il riconoscimento come migliore regista, a dispetto di cinque candidature. Nel corso della cerimonia, trionfale e consolatoria come sa essere solo Hollywood, Altman aveva ironizzato sulla sua personalità anarchica, rivelando poi di avere subìto recentemente un trapianto di cuore: pertanto si sentiva giovanissimo e pronto per molti altri film. I membri dell´Academy avevano applaudito con il sussiego che si tributa a uno scocciatore di talento, per dedicarsi subito dopo alle stelline del momento sulle quali investire il proprio entusiasmo e, soprattutto, i propri finanziamenti. Quella sera Altman aveva rifiutato di credere che quello fosse il canto del cigno e aveva accettato il premio parlando di una Hollywood che cambia sempre per non cambiare mai, sapendo che era un´affermazione valida anche per se stesso.
Ora un libro a firma di Mitchell Zuckoff, intitolato Robert Altman. The Oral Biography, ne analizza la personalità affascinante e controversa attraverso i racconti di amici, sodali e rivali che lo hanno frequentato lungo una carriera durata cinquant´anni. Come molti registi della sua generazione, Altman ha iniziato in televisione (ha all´attivo anche alcuni episodi di Bonanza), esperienza che lo ha formato nell´uso delle riprese simultanee con diverse macchine da presa. Ha realizzato una cinquantina di film: alcuni sono autentici capolavori, molti ordinaria amministrazione, altri ancora appaiono oggi quasi inguardabili. Ma nessuno, anche tra quelli meno riusciti, è affetto dalla mediocrità: si tratta semmai di sbagli di autore. Perché Altman ha imposto un modo di concepire il cinema assolutamente innovativo: i suoi film non assomigliano a quelli di alcun regista che lo ha preceduto, viceversa sono molti i cineasti che ne sono stati influenzati in maniera netta, a cominciare da Paul Thomas Anderson (Magnolia).
Nel dipanare una carriera piena di alti e bassi artistici e commerciali, il libro racconta soprattutto l´uomo: geniale, arrogante, seducente, irascibile, magniloquente, curioso, mai pago della soluzione facile. Originario dell´America più profonda (è nato a Kansas City) ma affascinato dall´Europa (ha vissuto a lungo a Parigi), Altman aveva manifestato una personalità singolare sin da quando era bambino e si divertiva ad allevare serpenti e tatuare cani. stato refrattario ad ogni forma di autorità sin da quegli anni e nei primi, incerti film giovanili ha intuito che ogni persona porta con sé un mondo, ed ogni personalità è arricchita dal confronto con gli altri. su questa intuizione che si basano gli inimitabili film corali, nei quali persone allo sbando non perdono mai la propria umanità.
Il libro conferma l´approccio umanista che rese grande il suo cinema, ma ne svela anche molti aspetti controversi. Era adorato dagli attori e in perenne conflitto con i produttori. Leggendari gli scontri con Dino De Laurentiis sul set di Buffalo Bill e gli indiani; venate di un greve antisemitismo le battute attribuitegli a proposito di Peter Newman, che chiamava «l´ebreo con i soldi» e al quale augurò pubblicamente la morte; per non parlare di Jack Warner, che lo licenziò nel mezzo del primo film per aver chiesto agli attori sovrapporsi nell´intreccio dei dialoghi, di «parlarsi addosso». Eppure quello che sembrava inconcepibile al potentissimo mogul divenne con gli anni un segno inconfondibile del suo stile.
La biografia orale affronta anche i ricordi di guerra: vide la morte da vicino e sopravvisse perfino a un incidente aereo. Ma quello che affascina maggiormente è il ricordo di un carattere indomabile, che lo spinse a cimentarsi nei generi cinematografici più disparati, a fallire e risorgere innumerevoli volte, senza piegare mai la testa davanti all´interlocutore di turno, anche quando questo aveva ragione. Si consentì eccessi di ogni tipo ma ebbe sempre un rapporto franco con la vita e con le persone che lo circondavano, che non trattò mai da cortigiani.
Era un uomo di contraddizioni anche artistiche: chi lo ha visto lavorare sul set sa bene che le improvvisazioni che chiedeva ai suoi attori andavano di pari passo con il controllo totale del mezzo e la pianificazione scrupolosa di ogni dettaglio. Si vantava sempre di «non dirigere i suoi attori»: era vero il contrario e, per la gioia degli interpreti, faceva sentire che nel cinema la libertà è illusoria come la realtà. Quando gli dicevano che ne I protagonisti aveva sferrato uno degli attacchi più feroci al mondo del cinema, replicava: «La mia è una critica blanda e affettuosa: Hollywood è un posto molto più vuoto e crudele».