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 2010  marzo 18 Giovedì calendario

E A BOLOGNA PRONTA LA MELA CISGENICA


Dal numero 46 di viale Fanin, a Bologna, dipartimento di colture arboree, è difficile uscire con la convinzione che le tecniche di modificazione genetica siano una minaccia per l’uomo. Lì, infatti, gli ogm li fanno veramente. E non c’è modo migliore di liberarsi dalle ideologie che vedere cosa si fa sul campo, valutando concretamente i rischi. Silviero Sansavini, professore emerito del dipartimento e studioso di fama, ha un tesoro in un cassetto che non può aprire. Qualche anno fa il suo gruppo è riuscito a produrre piante della varietà domestica di melo Gala contenenti il gene Vf della specie di melo selvatico Malus floribunda. Insomma, semplicemente piante di melo con un gene proveniente dallo stesso genere Malus. Con il risultato che i frutti sarebbero resistenti alla ticchiolatura, malattia che produce macchie nei frutti e provoca danni economici.

Il condizionale è d’obbligo perché Sansavini non può trapiantare le sue creature nel terreno per ottenere i frutti: il ministero delle Politiche agricole vieta la sperimentazione di organismi geneticamente modificati in campo aperto per evitare contaminazioni estemporanee di altre piante o di microrganismi nel terreno.

In compenso la cisgenesi, il metodo con cui i ricercatori bolognesi hanno per la prima volta al mondo ottenuto piante ogm del tutto simili a quelle ricavate per via riproduttiva sessuata, è ora sperimentata negli Stati Uniti. Lì, con una legislazione differente, dopo i test in campo, si potrà decidere se diffondere o meno gli ogm.

Le piante di Sansavini sono nei laboratori sotterranei del dipartimento bolognese. Chiunque abbia una minima idea delle condizioni necessarie per far sopravvivere una pianta resterebbe sorpreso: sono in barattoli sterili, con luce artificiale e temperatura costante, prive di radici e sospese in una gelatina di zucchero.

Il lungo iter che conduce a un melo ogm passa attraverso queste fasi: da un frammento di foglia geneticamente modificato viene rigenerato un nuovo germoglio in un ambiente ricco di nutrienti; quando la piantina è abbastanza sviluppata, si stimola con ormoni la produzione di radici; a quel punto è trapiantata e fatta sviluppare; infine si possono prelevare rami da farne talee. Dal momento però che le regole italiane impongono che quelle piantine non possano uscire dal laboratorio, ci vorrebbero almeno 4-5 anni di ricerca per arrivare allo stadio finale e iniziare la diffusione esterna, se autorizzata.

Il gruppo di Bologna ha iniziato, anni fa, con le tecniche transgeniche, per poi passare a quelle cisgeniche sulla mela Elstar. «A differenza della transgenesi, con questo metodo il dna della piantina finale non contiene sequenze estranee al melo, spesso usate nel processo di modificazione» spiega Sansavini. Nella pianta di melo cisgenico c’è, sì, il gene della specie selvatica, che la rende resistente alla malattia, ma non geni estranei, come quello della resistenza agli antibiotici (kanamicina o neomicina, presente invece nella discussa patata Amflora).

Almeno in questo caso le biotecnologie offrono vantaggi senza prestare il fianco a preoccupazioni di natura etica-ecologica o di salute. Nonostante ciò, all’ultimo congresso mondiale dell’Ifoam (la Federazione internazionale di agricoltura biologica), organismo che ha un peso notevole nelle decisioni dei governi, sono emerse ancora resistenze ad accettare le innovazioni biotech.

Il primo dubbio è che l’inserimento di un transgene possa modificare l’espressione di altri geni presenti nella pianta: per esempio aumentare la percentuale di proteine allergeniche. Ma Sansavini risponde: «Questo rischio rientra nelle proporzioni attuali dell’alimentazione umana e va comunque valutato studiando il prodotto finale». Studi dimostrano che nel peggiore dei casi si avrebbe un leggero aumento degli allergici al frutto, comunque inferiore al numero degli allergici a fragole o kiwi.

Seconda obiezione: siccome la pianta è pur sempre modificata, la tecnica della cisgenesi dovrebbe essere regolamentata come la manipolazione genica. «Ma questa conclusione non considera che nelle piante cisgeniche ci sono solo sequenze genetiche familiari. Infatti, grazie ai nostri partner di Zurigo e Hannover, è stato possibile eliminare qualunque gene marcatore estraneo» dice Roberta Paris del gruppo di Sansavini. Eventuali danni alla biodiversità sarebbero anch’essi scongiurati: le piante cisgeniche si aggiungono al patrimonio genetico già esistente.

Se poi la ricerca andasse avanti, le stesse tecniche potrebbero regalarci altre piante protette da patogeni difficilmente controllabili, come limoni resistenti alla malattia del malsecco e viti al riparo da parassiti e dalla muffa grigia.