Sergio Romano, Corriere della Sera 15/03/2010, 15 marzo 2010
IL PIANO FALLITO DI RICASOLI PER IL RITORNO DI MAZZINI
Mi è capitato di leggere un volume dell’ avvocato Mario Puccioni: «L’ Unità d’ Italia nel pensiero e nell’ azione del barone Bettino Ricasoli», uscito nel 1932 presso Vallecchi alla morte di Cavour, Ricasoli, fu chiamato a succedergli nella guida del governo. Fu un governo relativamente breve, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862, ma Ricasoli dovette affrontare questioni cruciali come il riconoscimento del nuovo Regno da parte dei vari governi europei. Infine per Ricasoli si trattava, come scrisse al fratello Vincenzo, di dar vita ad un «vero governo nazionale», cioè un governo - scrisse - «che non regola le cose nell’ interesse delle persone, ma pel maggior bene e per maggior decoro della nazione». A questo fine cercò anche il consenso dell’ opposizione di sinistra. Conosceva bene Mazzini, ne apprezzava la grandezza d’ animo, era intenzionato a «togliere il bando» che ancora gli impediva di rientrare in Italia e cioè nella nazione che egli aveva contribuito a creare. Faceva sul serio e si accordò con gli uomini più rappresentativi della sinistra per approntare un decreto da sottoporre alla firma del re col consenso del parlamento. Molti ostacoli furono superati con abilità politica, ma quando il decreto era già pronto per la sanzione regia giunse la pugnalata di Rattazzi e Ricasoli fu costretto a presentare le sue dimissioni con una lettera fiera e dignitosa indirizzata a Vittorio Emanuele II. Quello del Barone di ferro sarebbe stato un grande gesto di riconciliazione nazionale e di consolidamento della basi di consenso al giovane stato unitario. Un gesto che soltanto Ricasoli poteva compiere perché ne sentiva profondamente, come scrisse, la grandezza e la moralità. Zeffiro Ciuffoletti Università di Firenze
Caro Ciuffoletti, Non conoscevo il libro di Puccioni, ma l’ episodio è meno sorprendente di quanto sembri a una prima lettura. Ricasoli fu un giacobino di destra, convinto che occorresse, come disse d’ Azeglio, «fare gli italiani». Sapeva che i mazziniani erano molto più unitari dei numerosi opportunisti saltati a bordo del Regno per convenienza, e ritenne che il ritorno di Mazzini in patria avrebbe giovato alla nuova identità nazionale. Prevalse invece la posizione di quanti pensavano che lo Stato andasse consolidato intorno alla dinastia dei Savoia e che la presenza in Italia di un grande repubblicano avrebbe indebolito la monarchia. Mazzini, quindi, continuò a essere, fuori d’ Italia, il leader dell’ opposizione. Fondò nel 1866 l’ Alleanza Repubblicana, progettò nel 1870 la liberazione di Roma e cercò di organizzare una spedizione che sarebbe partita dalla Sicilia. Ma fu arrestato prima di sbarcare a Palermo e finì nella fortezza di Gaeta da cui poté uscire, qualche mese dopo, soltanto grazie a un provvedimento di amnistia. Nella vita politica nazionale, intanto, alcuni dei suoi seguaci lo avevano abbandonato. In un discorso alla Camera, il 18 novembre 1864, Francesco Crispi disse che «la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe», e: «Noi unitari innanzi tutto siamo monarchici, e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi». Non basta. Mentre alcuni vecchi amici passavano al servizio del nuovo Stato, Mazzini era costretto a difendere le proprie idee contro gli anarchici di Bakunin, sempre più presenti nei ceti sociali dove il suo insegnamento, in passato, aveva conquistato maggiori consensi. Isolato e stanco, rientrò in patria illegalmente nel 1872 sotto il nome di «dottor Brown» e trovò ospitalità a Pisa nella casa della famiglia Rosselli. Morì in quello stesso anno e fu sepolto nel cimitero Staglieno di Genova. Soltanto negli anni seguenti, quando non poteva più nuocere alla monarchia, divenne finalmente un «padre della patria». Ma anche il grande monumento progettato per onorare la sua memoria nella capitale ebbe una vita difficile. Fu scolpito da Ettore Ferrari nel 1929, ma trovò la sua definitiva collocazione sull’ Aventino, soltanto nel centenario della Repubblica Romana, tre anni dopo la proclamazione della Repubblica Italiana.
Sergio Romano