Tim Parks, Il Sole-24 Ore 14/3/2010;, 14 marzo 2010
IL CORAGGIO ALL’ULTIMA SCELTA - A
distanza di quasi sessant’anni,c’è ancora qualcosa di nuovo o di rilevante da dire sull’ultimo gesto di Cesare Pavese,qualcosa che vada al dilàdell’analisi dell’impasse psicologica da lui stesso congegnata? Nei suoi diari, lo scrittore parla del comune desiderio umano di fermare la vita e il tempo nei momenti più ricchi di connotati simbolici. Certamente il suicidio è un modo per fermare la vita e il tempo. E certamente vi furono notevoli sforzi di messinscena nella decisione di prendere una stanza d’albergo nel centro di Torino per ingoiare le pastiglie che l’avrebbero ucciso. Ma se questo era un simbolo, che cosa significava? Perché l’Hotel Roma? Perché vicino alla stazione?
Nato nel 1908, Cesare era il figlio più piccolo. Dei quattro fratelli nati prima di lui, solo una sorella più vecchia di sei anni era sopravvissuta. Alla morte del padre Cesare aveva cinque anni e la madre impose alla famiglia una disciplina ferrea, quasi ostile. In confronto perenne con persone più grandi di lui, Cesare faticò a diventare adulto. Tutta la sua narrazione, e in particolare i diari, tradiscono l’anelito alla maturità e l’ansia di non riuscire mai a raggiungere coloro che gli stavano attorno. I suoi romanzi mettono in scena invariabilmente un estraneo che tenta di farsi accettare da un partner, da un gruppo di amici o di attivisti, solo per scoprire, al verificarsi di qualche drammatico evento, che in realtà è escluso, non ha capito nulla e conta nulla. «I miei racconti», osserva Pavese nel 1942, «sono storie di un contemplatore che osserva accadere cose più grandi di lui». Pavese viveva allo stesso modo. Dopo la guerra scriveva nel diario: «Non hai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?».
Perché Pavese non aveva combattuto? Perché trovava così difficile partecipare alla vita comune? Ne La casa in collina lo scrittore offre un’interpretazione pacifista del suo comportamento, che conquistò al romanzo un vasto plauso nel clima postbellico. Altrove, tuttavia, Pavese era convinto che la sua mancata partecipazione era in realtà vigliaccheria, egoismo: da qui probabilmente scaturì la decisione di gettarsi a capofitto nel Partito comunista dopo la guerra, quasi un gesto di mortificazione. Però la ragione più ovvia, e quella che traspare da tutti i suoi scritti, è che ogni forma di azione e di coinvolgimento, erotico o politico che fosse, gli provocava un senso di repulsione. Nei suoi romanzi il sesso appare sempre sporco, proprio come la violenza della guerra è sporca e terrificante. Se pensiamo ai protagonisti dei suoi romanzi – Berto, Corrado, Clelia, Anguilla – vediamo che pur agognando il coinvolgimento con gli altri, essi si sentono sottilmente superiori e separati, soprattutto intellettualmente: «Aver coraggio e aver ragione: » scriveva Pavese nell’ottobre del 1944, «i due poli della storia. E della vita. L’uno, in genere, nega l’altro». Ne consegue che i coraggiosi sono irrazionali e i razionali sono vigliacchi. All’inizio dello stesso anno si esprimeva così: «Il sangue è sempre versato irrazionalmente».
Allora Pavese, che non aveva versato sangue, che non aveva mai partecipato veramente a nessun movimento, né persino a una storia d’amore, era stato il più razionale di tutti. Pur tuttavia sentiva che non avrebbe mai raggiunto la maturità se non si fosse unito a un gruppo di coraggiosi, di irrazionali. Due valori fondanti si scontravano in pieno. Di conseguenza Pavese bramava e respingeva il coinvolgimento, tanto nel sesso e nell’amore come per la guerra. Nel 1946, riflettendo su una défaillance sessuale, scrive di una ragazza «intensamente sensuale» che «ti ha avuto tra le braccia e non ti ha voluto. O non l’hai presa tu? Vecchia storia».
Sarebbe lecito attribuire tutto ciò a una psicologia fortemente individuale e conflittuale. Eppure il dilemma si riflette in altri romanzi dell’epoca. Ne Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani, Micol rifiuta qualunque compromesso, sentimentale o politico. «L’amore era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda: uno sport crudele, feroce ». Preferiva morire piuttosto che lasciarsi coinvolgere. Ne Il bell’Antonio di Brancati, la misteriosa impotenza del protagonista sembra dipendere più dalla spaventosa volgarità del mondo che lo circonda che da una sua menomazione fisica. Escluso dal sesso, Antonio si vede escluso anche dalla politica. «Antonio non aveva mai la stoffa del vero fascista», dice di lui un funzionario del partito. Per il lettore, è un punto a suo vantaggio. Si avverte immediatamente la sua purezza e superiorità dell’impotente Antonio in confronto agli individui affaccendati che lo circondano.
Una possibile soluzione al desiderio di coinvolgimento, pur preservando la propria integrità, si cela forse nell’arte, nella scrittura. « bello scrivere», ci dice Pavese, «perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla». Nella scrittura si è coinvolti, pur restando soli. Ma non mancano gli inconvenienti. Scrivere non equivale davvero a vivere. «In queste pagine c’è lo spettacolo della vita, non la vita stessa». E non si rimane neanche così puri e distaccati come si vorrebbe. Ogni successo letterario è in parte dettato dal pubblico che lo acclama. «Non è vietata la grandezza», scrive Pavese, «è vietata la grandezza senza la sanzione della classe egemonica». Come si faa compiacere la classe egemonica senza compromettere se stessi?
Pavese era convinto che l’era moderna stava aggravando questo dilemma. «Adesso si è coscienti di una massa la quale vive di mera propaganda. Anche in passato le masse vivevano di propaganda deteriore, ma allora, essendo meno diffusa la cultura elementare, questa massa non mimava i veri colti e quindi non faceva sorgere il problema se fosse o meno in concorrenza con loro». Oggi invece quella competizione è palese. Ciò che viene elogiato come letteratura e vince premi letterari potrebbe anche essere "propaganda deteriore", mascherata da alta cultura. In tali circostanze, semplicemente ambire al successo letterario diventa un impulso sospetto. «Il problema non è la durezza della sorte, poiché tutto quello che si desidera con bastante forza, si ottiene. Il problema è piuttosto che ciò che si ottiene disgusta. E allora non deve mai accadere di prendersela con la sorte, ma con il proprio desiderio».
Due avvenimenti fanno precipitare il suicidio di Pavese: un fallimento in amore e un successo in letteratura. Il fallimento di legare a sé Constance Dowling gli ricordava che al trionfo letterario "mancava la carne". La vittoria del Premio Strega lo rendeva acutamente consapevole della banalizzazione della cultura contemporanea e ancor più insoddisfatto delle proprie ambizioni. L’unico modo in cui uno scrittore di successo poteva evitare di decadere nel triviale era la morte; da vivo, invece, rischiava di inquinare i suoi successi. «In fondo, tu scrivi per essere come morto», scriveva Pavese nel 1949, «per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo». L’unico gruppo in cui Pavese si sarebbe sentito a suo agio non poteva essere che la Società dei Poeti Morti. Non per nulla era stato attirato dalla traduzione di Melville e Defoe. Tra i morti, era al di là di qualsiasi compromesso.
«Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Sono le ultime parole del diario. Nel recarsi all’Hotel Roma, nei pressi della stazione, Pavese staccava quel gesto dalla sfera personale e lo inseriva nel cuore della sua città e simbolicamente della nazione. Ma una volta all’interno della società, l’unica azione possibile, lontana da ogni compromesso, era l’autodistruzione. Se questo era vero nell’Italia del 1950, quanto più intensamente l’avrebbe avvertito Pavese nell’Italia di oggi, nella Torino che ha prodotto la farsa del Grinzane Cavour, nell’Italia della Fininvest e degli interminabili talk show televisivi?
E non solo in Italia...