Renata Einaudi, Il Sole-24 Ore 14/3/2010;, 14 marzo 2010
«IL MIO MAESTRO CESARE PAVESE»
Sono passati tanti anni da allora, da quando venni assunta a Roma in via Uffici del Vicario per riorganizzare un archivio editoriale. L’archivio editoriale era in realtà la Casa Editrice Einaudi.
In fuga da Roma
Pochi giorni dopo, con lo sbarco degli alleati nel Sud, riceviamo l’ordine di rientrare a Torino, perché il paese sarà diviso dagli eserciti in guerra. Pavese e io, fino ad allora due estranei l’uno per l’altra, riusciamo a salire su uno degli ultimi treni affollati, ma un allarme aereo ferma il treno in aperta campagna e ci ritroviamo seduti su una triste sterpaglia, con gli aerei che sorvolano il convoglio, in attesa che l’allarme finisca; così, tra i frammenti delle nostre storie via via più personali, Cesare Pavese diventerà l’insostituibile maestro del mio lavoro per i giorni a venire.
La Torino degli scrittori
Ci lasciamo alla stazione di Porta Nuova, una stretta di mano e via: ma io indugio, c’è un altro treno merci fermo sui binari e dietro le sbarre vedo i volti dei giovani ufficiali dell’esercito italiano che stanno per essere deportati. Non posso che ricambiare lo sguardo mentre due SS col mitra puntato impediscono a chiunque di avvicinarsi. Devo andar via prima che scatti il coprifuoco; i miei parenti abitano in corso Stupinigi.
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Non conosco la città e cerco di sentirmi accolta dalle sue vie più antiche, ed è in via Giolitti che incontro Cesare Pavese con la Fernanda Pivano, passeggiavamo verso il fiume e le incantevoli piazzette Maria Teresa e Cavour... Altro che Cavour. Per me Torino sarà sempre la città di Pavese.
Il lavoro, gli amori, i traduttori
L’attaccamento al lavoro di Pavese era proverbiale, l’ufficio era la sua casa, il suo luogo dello spirito, una presenza su cui contare anche sabato e domenica, in quel caos di carte e manoscritti che solo lui sapeva gestire. Ricordo, sulla parete, la foto di una testa greca, forse Afrodite... Niente in fondo vale come i propri ricordi, e ho presente mentre rientravamo in ufficio lo scatto con cui raccolse un rondone caduto dal nido e la felicità nel rilanciarlo in alto. Lo ricordo alto e magro, con un’andatura dinoccolata per via del suo borsone pieno di carte da lavoro, col ciuffo di capelli ribelle; e la sua pipa.
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Grande attenzione era riservata alla scelta dei traduttori, ed è facile immaginare il mio entusiasmo quando mi propose di tradurre un romanzo inglese sotto la sua guida esperta. Confesso che non mi interessavo ai nomi dei traduttori prima di allora e nelle traduzioni con il testo a fronte scoprii con meraviglia musicalità rivelate, esercizi di stile sullo stesso tema. Penso in particolare a Rilke tradotto da Giaime Pintor.
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Pavese scherzava con noi dei suoi amori; erano sigle, la T, la F, la B e infine la C. Mica le avevamo mai viste, salvo la F. Me le immagino come icone vivacizzate nei quadri di Andy Warhol.
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Posso ricordare delle trattorie lungo il Po dove si mangiava il pesce appena pescato. Posso ricordare le riunioni di redazione dei mercoledì, più che un gruppo una confraternita, che oggi non c’è più, dove la diversità non era motivo di scontro ma di coesione finale. Aggiungo che a differenza di quanto si dice, tra Giulio Einaudi e Cesare Pavese c’erano rivalità e battute velenose, ma anche e soprattutto un profondo rispetto. Venivano scelti collane, titoli, autori: ci fu per Pavese il momento della collana viola di etnologia e ci interessammo un po’ tutti al popolo dei boscimani, abitanti dell’Africa Meridionale, e alla loro arte rupestre. Fu Pavese a portare Calvino in Casa Editrice. Diceva che ci saranno sempre due categorie di scrittori, quelli che diventano famosi e gli altri quasi famosi, «e Calvino diventerà famoso».
Udrai parole antiche
Desiderava che dalle sue poesie scaturisse una costruzione a se stante e ammirava il verso libero di Whitman. Scoprì nei quadri di Mario Sturani, fraterno amico pittore, l’evidenza del colore e la sapienza della costruzione, il racconto stesso: la chiave per scrivere i suoi romanzi.
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Nella tragedie di Shakespeare era il momento della verità a colpirlo, l’eleganza e il wit , il significato che non può essere che quello: in
Edipo Re , Macbeth , Riccardo III.
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Torino è una città di grandi targhe, forse la più famosa è quella di Nietzsche in piazza Carlo Alberto. Come sarebbe bello comparisse in una di quelle vie cercate anni fa, un passaggio di una sua poesia che dice: «I gatti lo sapranno, / viso di primavera; / e la pioggia leggera, / l’alba color giacinto, / che dilaniano il cuore / di chi più non spera, / sono il triste sorriso / che sorridi da sola. / Ci saranno altri giorni, / altre voci e risvegli. / Soffriremo nell’alba, / viso di primavera.
(Testo raccolto da Gianluigi Ricuperati con l’aiuto di Elisa Fissore)