LAURA ANELLO, La Stampa 16/3/2010, pagina 9, 16 marzo 2010
L’ULTIMO TESTIMONE DELL’EPOPEA DEL BANDITO GIULIANO
uno dei pochi testimoni ancora vivi di una stagione ammantata di mito e di sangue, di una Sicilia di cinquant’anni fa che intreccia mafia, servizi segreti, poteri, ricatti, complotti, morti accidentali travestite da delitti, delitti fatti passare per incidenti. Tutto questo ha lambito Antonino Marotta, il decano degli arrestati dell’operazione «Golem 2», fratello di quel Giuseppe - morto nel 2004 - che fu tra i fedelissimi di Salvatore Giuliano, l’uomo che portò il bandito nella casa di Castelvetrano dove fu ucciso 60 anni fa, il 5 luglio del 1950. Uno degli episodi più oscuri della storia della Repubblica, quasi un presagio delle trame che si sarebbero dipanate in Sicilia nel mezzo secolo successivo.
Giuseppe fu condannato a nove anni per avere fatto parte della banda Giuliano, il fratello - racconta il capo della Mobile di Trapani, Giuseppe Linares - «fu vicino a quell’esperienza». Adesso è agli arresti domiciliari, concessi in virtù dei suoi 83 anni, la stessa età delle ex primule rosse che ora vivono da pensionati a Montelepre, la patria del bandito, il paese a trenta chilometri da Palermo - entroterra aspro e montagnoso - dove c’è una pizzeria zeppa di bandiere della Trinacria, di fotografie e di cimeli gestita da un familiare di Giuliano. Qui vive ancora il mito del paladino dell’indipendentismo siciliano, del Robin Hood nemico del potere centrale tiranno, del ribelle buono a dispetto di una storia accertata che lo vuole immerso - più o meno consapevolmente - nei rapporti più oscuri tra Stato e mafia. «Non mi stupisce affatto che tra i vecchi componenti e simpatizzanti della banda Giuliano ci siano mafiosi - dice Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo - la sua è una storia di mafia, oltre che di grandi trame politiche».
«Giuliano aveva relazioni strettissime con i boss dell’area palermitana-trapanese», aggiunge Francesco Di Bartolo, autore insieme con altri sei studiosi di un lavoro sul campo, grazie al quale sono stati rintracciati gli ultimi testimoni di quella stagione: componenti della banda, fratelli, mogli, figli. Una storia che comincia nel 1944, in una Sicilia affamata e confusa, quando il futuro bandito si dà da fare - come molti - con il contrabbando di frumento. I carabinieri lo fermano, gli sparano, lui reagisce, uccide un giovane militare e si dà alla latitanza. Un episodio che segnerà tutto il suo mito di «bandito per necessità».
Da lì la creazione di un esercito che arruola ragazzi scappati dalla leva militare, delinquenti comuni, disperati. E ideologi del sogno indipendentista e anti-bolscevico. I vivi si contano oggi sulle dita di una mano: uno dei capi era Frank Mannino, che vive a Genova, è attivo nei Testimoni di Geova e di Giuliano non vuole parlare. Vincenzo Pisciotta, fratello di Francesco, che faceva parte del gruppo dei sequestri. E poi ex picciotti della banda come Giuseppe Cristiano, Francesco Tinervia, Antonino Buffa, oggi tranquilli pensionati di Montelepre.
Una parabola, quella di Giuliano, che culmina nel 1947 con la strage di Portella della Ginestra, dove muoiono dodici dei duemila contadini che manifestavano contro il latifondo all’indomani della vittoria di comunisti e socialisti (e la clamorosa débacle della Dc) alle elezioni dell’Assemblea regionale. Fu solo la banda a sparare? C’erano anche uomini della Decima Mas? C’era dietro la Cia? Su questo gli storici si dividono. Concordi invece nel ritenere, sintetizza Lupo, «che quella fu una pagina di strategia della tensione, il tentativo di innescare una guerra civile e di ristabilire l’ordine». Giuliano crede di avere acquisito un salvacondotto per uscire dalla latitanza, sogna una grande carriera politica. E invece diventa scomodo, ingestibile per i presunti committenti della strage (Gaspare Pisciotta, che morirà avvelenato prima di potere confermare le accuse, chiama in causa al processo tra gli altri «il signor Scelba», allora ministro dell’Interno) e la mafia glielo serve su un vassoio d’argento. Stanca di troppi sbirri in giro. Una storia che si ripeterà.