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 2010  marzo 15 Lunedì calendario

LA CORSA ALL’EURO? PECHINO CHE COMPRA

Massimo Siano, da responsabile italiano di Etf Securities ed esperto internazionale di valute e materie prime, quale rapporto di cambio individuerebbe lei come corretto fra yuan e dollaro?
«Il cambio attuale è tutto politico, non ha niente a che fare con l’economia. Se al libero scambio venisse permesso di fare il suo gioco, lo yuan si rivaluterebbe almeno fra il 30 e il 50 per cento».
Ma la politica può forzare le ragioni dell’economia all’infinito?
«No. La Cina con il suo cambio artificialmente basso accumula inflazione. Del resto facevano lo stesso, fino a venti o trent’anni fa, anche le precedenti ”tigri” asiatiche: Taiwan, Sud Corea, Singapore, lo stesso Giappone. Però adesso, se lei va in uno di questi Paesi e prova a comprarsi una camicia, o qualunque altra cosa, scopre che costa molto più che in Italia. Questi Paesi hanno giocato troppo a lungo sul cambio debole, di conseguenza hanno visto crescere i loro costi di produzione e adesso non possono più competere su quelli, ma solo sulla tecnologia, altrimenti sono fuori mercato. Anche la Cina, sulle orme di questi Paesi, sta perdendo rapidamente i suoi vantaggi competitivi, molto più in fretta di quanto si pensi in Occidente. E questo è un male per la Cina, perché un Paese, per crescere veramente nel lungo periodo, deve sviluppare i consumi interni, e questo può farlo solo se ha una moneta forte».
Come mai, allora, una spinta dal basso all’incremento dei consumi interni cinesi non si avverte?
«Perché la Cina è ancora ben lontana dal potersi definire una democrazia. Invece è guidata da una classe dirigente corrotta, fatta da funzionari che lucrano tangenti sull’export, una cresta che non si potrebbe fare altrettanto facilmente sui consumi interni. Perciò vogliono che le cose restino così, continuando a speculare sul basso costo della mano d’opera. Ma anche se pochi se ne rendono conto, persino l’immenso il serbatoio di manodopera cinese, stretto com’è fra la denatalità e una crescita media annua dell’8 o del 10 per cento, in una manciata di anni sarà esaurito».
Gli Stati Uniti e la Cina sono destinati a scontrarsi sulla questione del cambio fra dollaro e yuan?
«Destinati non direi proprio! Perché il paradosso è che gli Usa consigliano alla Cina di fare una cosa giusta, cioè rivalutare la sua moneta nel suo stesso interesse e così sviluppare i consumi interni. Per la Cina, intesa come popolo e non come classe dirigente, continuare a tenere, con successo, il cambio artificialmente basso è una vittoria di Pirro. Spingendo lo sguardo più in là, fra pochi anni la Cina, ma fra venti anche l’India, il Vietnam e tutto il resto dell’Asia, avranno perso il loro vantaggio competitivo. A costi bassi, forse, si produrrà in Africa»».
Riguardo al cambio con il dollaro, Pechino non si preoccupa solo di sostenere la produzione e l’export ma anche di non deprezzare le sue enormi riserve di 3 mila miliardi di dollari rivalutando lo yuan.
«I cinesi si stanno già coprendo da questo rischio, diversificando le loro riserve, ma piano piano per non turbare i mercati. Anche di questo si sono accorti in pochi, ma se negli scorsi cinque anni l’euro si è rivalutato sul dollaro, è perché i cinesi hanno venduto dollari per comprare molti euro. Lo stesso vale per l’oro. Pechino comprò 15 miliardi di dollari d’oro a 870-875 dollari l’oncia, e da quel momento l’oro non è più sceso al di sotto, perché i mercati ritengono che se scendesse a quel livello la Cina ricomincerebbe a comprare, e allora lo fanno anche gli altri operatori. Lo stesso è capitato con l’India quando ha messo le mani su 7 miliardi di dollari d’oro a un migliaio di dollari l’oncia: quello è diventato un nuovo minimo, una soglia impossibile da attraversare al ribasso. Cina e India fanno il prezzo dell’oro a livello mondiale diversificando le loro riserve. E fissano anche il valore dell’euro».