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 2010  marzo 15 Lunedì calendario

LA CINA SFIDA OBAMA, LO YUAN NON SI TOCCA

Il momento è stato quello cruciale dell’anno, la conferenza stampa del premier cinese Wen Jiabao davanti ai corrispondenti stranieri al termine della sessione annuale del partito, che è durata dieci giorni. La Cina ha ribadito che sulla spinosa questione della rivalutazione dello yuan resta ferma sulla sua posizione: Pechino che manterrà il cambio stabile. uno schiaffo a quanti negli Stati Uniti chiedono pressantemente la rivalutazione dello yuan sul dollaro.
In effetti, la questione dello yuan per la Cina è estremamente delicata. Ci sono due ordini di problemi, uno di interesse economico nazionale cinese e uno di carattere generale sulla gestione della crisi da parte dell’America: che non soddisfa i cinesi.
Per quanto riguarda l’interesse cinese, Pechino ha già ventilato la possibilità di rivalutare lo yuan di circa il 10 per cento. Secondo alcune stime la Cina ha riserve per un valore complessivo di circa tremila miliardi di dollari, quindi una rivalutazione dello yuan significa una perdita teorica secca del valore di quelle riserve per trecento miliardi di dollari.
Una rivalutazione del 40% - è quanto chiedono alcuni economisti americani - avrebbe un valore di 1.200 miliardi. Di fronte a queste cifre il governo cinese è certamente molto preoccupato e non è neppure così difficile capirne le ragioni: nessuno accetta a cuor leggero che i suoi risparmi perdano di valore, tanto meno se succede in conseguenza di una sua decisione.
Inoltre, una rivalutazione dello yuan colpirebbe le esportazioni, li grande motore dell’economia cinese - che non può contare su impennate dei consumi interni - e quindi avrebbe un effetto diretto sulla occupazione delle aziende esportatrici. Calcoli del governo sostengono che 1% di rivalutazione può corrispondere a un 1% di riduzione delle esportazioni e quindi a un diminuzione esponenziale dei posti di lavoro.
Chi regola Wall Street?
In aggiunta a questo, ci sono preoccupazioni di carattere generale. L’America è da oltre un anno che promette nuovi regolamenti per il controllo delle attività di Wall Street e delle banche, che hanno creato la crisi finanziaria ed economica in corso. Questi nuovi regolamenti però ancora non ci sono né - è chiaro - si profilano all’orizzonte. Perfino l’Europa a questo punto è scettica sulla reale volontà degli Stati Uniti di riformare la finanza: e pensa di provvedere a darsi regole sue in contrasto aperto con Wall Street ma anche con la City di Londra.
Né si vedono nuovi parametri di un rinnovato ordine economico globale, che sarebbe dovuto nascere dalle ceneri di questa crisi. La Cina, che pure contribuisce in maniera crescente allo sviluppo globale, ha una rappresentanza ancora minima nelle organizzazioni economiche globalizzate come il Fondo monetario internazionale (Imf) o la Banca mondiale: a buon diritto chiede più spazio.
Perché la Cina, sottorapresentata globalmente, dovrebbe fidarsi degli Stati Uniti e procedere all’agognata rivalutazione della sua moneta, quando Washington - che agli occhi cinesi è all’origine dei problemi attuali - non ha ancora messo ordine nelle sue questioni interne? Si chiedono a Pechino. Infine, la ricetta della rivalutazione stessa è dubbia. Negli anni ”80 gli Usa pressarono il Giappone per una rivalutazione, cosa che contribuì alla stagnazione economcia del Paese. Vista quell’esperienza, il paese della Grande Muraglia preferisce evitarla.
L’effetto-Giappone
Lo stesso potrebbe accadere ora in Cina. Oggi in più, in uno stato di perdurante crisi, una forte rivalutazione dello yuan potrebbe avere effetti destabilizzanti, esiti imprevedibili per la Cina e per tutto il mondo. Una conseguenza immediata possibile sarebbe l’arrivo di nuovi capitali dall’estero in Cina che spingerebbero a ulteriori rivalutazioni, aumenterebbero pressioni inflative, e potrebbero spingere a successive fughe di capitali, cosa che farebbe precipitare l’economia cinese. Gli scossoni non fanno mai bene ai sistemi economici, neppure un aumento improvviso del flusso di denaro.
Tale conseguenza sarebbe un disastro per la Cina, ma anche per il resto del mondo che potrebbe avvitarsi nella depressione, visto che nel 2009 il Paese ha contribuito da solo per circa il 50% dello sviluppo mondiale.
Il dubbio a Pechino è però anche più malizioso. C’è chi è convinto che qualcuno a Washington si sia messo in mente di esportare in Cina la crisi americana, o almeno parte delle sue conseguenze e magari - su un piano più squisitamente politico - anche di fare della Cina lo spauracchio da agitare per l’opinione pubblica interna americana e chiedere dazi protezionistici (in realtà il dibattito sui dazi è già ampiamente aperto, diversi politici ed esperti americani li chiedono a gran voce da mesi). In questo caso la Cina potrebbe rispondere per le rime, scatenando una campagna interna che risponda ai dazi americani con altri dazi.
L’accordo si allontana
Lo scenario che si presenterebbe sarebbe di una guerra commerciale tra giganti che contribuirebbe ad affondare tutti in una depressione ben più acuta di quella in corso. Per questo, le teste più fredde da entrambi i lati del Pacifico chiedono calma, collaborazione e comprensione dei problemi altrui per studiare soluzioni che permettano all’occidente di uscire dai guai senza trascinarvi la Cina. Ma è soprattutto la comprensione che sembra mancare in queste settimane: quando la sfiducia reciproca non diminuisce, e anzi per certi versi aumenta addirittura, gli spazi per il compromesso possono diventare sempre più risicati.