Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 16/3/2010;, 16 marzo 2010
L’ULTIMO VIAGGIO DELL’ERETICO PAZ
una figura mistica, che appare dall’alto dei cieli. I denti in fuori, il furore biblico. ”A guardarlo non era poi tanto orribile, ma era così grosso che faceva imp re s s i o n e ”. Astarte, il cane immaginario di Annibale, l’ultimo viaggio in chiaroscuro di Andrea Pazienza. La storia incompiuta, perché prima di veder battuti a Zama condottiero e bestia, Andrea anticipò la storia ancora una volta, in una notte di giugno del 1988, nella quieta Toscana di colli e vigneti che accoglieva da quattro anni il suo tentativo di ritrovare la linea della vita. Annibale, letta una biografia di Gianni Granzotto, ricorda Marina, la moglie sposata nel 1985: ”Era entrato nei suoi pensieri”. Nel bianco e nero e nella scrittura folgorante, nel rapporto simbiotico tra animale e padrone, Paz ritrovò il nesso dell’epopea, senza sventolare bandiera bianca come pure aveva fatto (bluffando) per la gioia degli esegeti: ”Mi arrendo ai confini dei miei limiti. Ma combatto strenuamente dentro di essi, onestamente” e chiuse senza completezza l’af fresco bellico con una fotografia lieve, profetica, finale. Un riposo, un abbraccio, due cani esausti: ”Mentre la battaglia infuriava, io e Baal, ci addormentavamo insieme per l’ultima volta”. Apre la novel l’enfatico Pascoli bellico che celebra l’av ve n t u ra coloniale in Libia: ”La grande proletaria si è mossa verso la quarta sponda” e chiude il sonno, l’addio inconsapevole, la porta che non si riaprirà più. Paz dunque, l’incubo di ogni giovane disegnatore, il modello cui tendere, il tratto dolcemente schizofrenico che ne teneva insieme altri mille. Tutte le sue esistenze da nomade, da sperimentatore, da illustratore e scrittore, fumettista e pittore, cartoonist e intruso tra i manifesti disco-cinematografici (Vecchioni, Fellini). E poi le suggestioni bolognesi, con le facoltà universitarie di Via Zamboni assediate dai carriarmati nel Marzo ’77 e i gabbiani dell’infanzia marina tr al’Abruzzo e San Severo, il medioevo e i protagonisti del teatrino istituzionale (celebre la fascinazione per le orecchie volanti di Andreotti), l’adolescenza pescarese con il padre insegnante d’ar - te e il legame con la famiglia, le nostalgie pugliesi e la nebbia senza soluzione di una fragilità troppo breve da dimenticare. Tutto in una sola, tormentata umanità che alla stretta codificazione dei generi preferiva l’assalto poliedrico. La generosità scomposta, la curiosità inesausta, i fiumi da esplorare con Stefano Benni alla ricerca di carpe improbabili, metafora dell’irraggiungibile, le lezioni tenute con Jacopo Fo in università bucoliche ad alto tasso di improvvisazione e le fumose redazioni di sovversioni simboliche chiamate ”Il Male”, ”Canniba - le” o ”Fr igidaire”. Pazienza poeta, Pazienza lungimirante analista: ”Berlusconi non ha mai letto”, Pazienza e il vizio allucinato, Pazienza che conosceva il rischio dell’ironia e agli ormoni dei suoi ragazzi in attesa dell’i n c o n t ro amoroso faceva nascondere Dostoevskij in librerie tornite di Guerin sportivi, Pazienza che non negava mai all’ego di raffigurarsi nelle situazioni più dissimili tra loro. Nel medioevo, come nella asfittica contemporaneità fotografata in tinelli da studenti migranti, dal sud all’infinito. Perché Paz il ”ter rone’, meridionale come Cassius Clay, ma ”in termini difensivi”, era in realtà un apolide. Che stesse fermo e frugasse tra gli interstizi della disperazione o portasse la matita tra scudi, sangue e visioni, bruciante vibrava il rifiuto di un’omologazione obbligata. C’era un po’ di Via Paal nelle figure in controluce di quella Bologna, nella futurista, sardonica scintilla di rabbia dei tanti Zanardi, nel ghigno dei compagni di strada sfuocati, irredimibili, smarriti dietro a un nichilismo vitale, un ossimoro compulsivo come era stata tutto il secolo breve di quel ragazzo marchi giano che si struggeva davanti alle pianure meridionali, al grano, al sale della terra che pure non sarebbe dispiaciuto a un altro talento come Rino Gaetano. Dei quasi quattromila zaffiri lasciati da Pazienza sul terreno, ”Astar te” è il manifesto della immaginazione megalomane che permetteva al suo autore di volare oltre le consuetudini. Fandango (e non è la prima volta) ne porta meritoriamente il ricordo in libreria dal 18 marzo (103 pagg, 20 euro) aggiungendo un’introduzione di Roberto Saviano in cui lo scrittore loda l’agognata rincorsa all’e vasione. ”Sono un giovane prete ilare, scherzoso, complimentoso, che batte i tacchi, che ghigna a tutto spiano, capace di cattiverie povere, insulse, di paranoie galattiche sulle quali non tramonta mai il sole”. Sintetizzare il macrocosmo nel recintante termine timidezza, gli sarebbe parso riduttivo, perché pudìca non era la sua voglia di superare le etichette, di abbandonarla a marcire nelle disquisizioni in cui la noia dava il buongiorno al tedio, di affrontare una sfida da autodidatta che seppe emergere per le geniali trasvolate in territori che amavano la diversità. Voleva di più, Paz. Nascondendo la smania dietro a presentazioni autoridicolizzanti: ”Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza... disegno da quando avevo 18 mesi, so disegnare qualsiasi cosa in qualunque modo... Ho fatto il liceo artistico, una decina di personali e nel ’74 sono divenuto socio di una galleria d’arte a Pescara... dal ’75 vivo a Bologna. Sono stato tesserato dal ’71 al ’73 ai marxisti- leninisti. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Morirò il sei gennaio 1984”. Accadde comunque, anche se la coincidenza di date smottò il manto delle previsioni esorcistiche. Avvenne perché così capita a certe biografie irregolari. C’è un lampo, un destino, una commozione non del tutto inattesa che oggi, con il mito edificato e sfruttato da indegni, sedicenti eredi su carta senza ritegno o pudore e l’imitazione banditesca in protervo, costante agguato agli angoli delle strade, fa riscoprire ”Astar te” già pubblicato nell’88 con commosso rimpianto. Paz non l’avrebbe permesso, ma pensare a come sarebbero potute andare davvero a finire, vita e creazione fumettistica, più che sorridere, guardandosi intorno, incupisce fino alle lacrime.