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 2010  marzo 16 Martedì calendario

«MAMMA, SCENDO». COS SPAR LA FIGLIA DEL BARISTA

Sabato pomeriggio, ancora freddo il clima di un marzo irrisoluto, Mirella nella sua casa sulla Nomentana accanto al giradischi, ascolta ”Vita spericolata” di Vasco, successo di Sanremo, o un altra delle canzoni di quell’anno, o forse legge, o forse sta guardando la tivvù, e aggira col telecomando la noia delle notizie sul governo Fanfani, e aspetta ”Premiatissima” con Dorelli, o forse stasera in discoteca, si andava già a ballare, a quei tempi, a 15 anni? Chissà in quale dei passatempi che impegnavano i ragazzi nell’83 era impegnata Mirella Gregori, prima che a una cert’ora di quel sabato gracchiasse il citofono, e «scusa mamma scendo, c’è Alessandro, un compagno delle medie, non lo vedo da un po’, vado a salutarlo, torno subito». E poi non è tornata.
Nessuno ha saputo nulla di lei, dopo quel 7 marzo, e pochi sanno di lei anche prima di quel giorno: chi era, che pensava, che faceva, com’era la sua vita? Manuela Gregori, 15 anni, capelli e occhi castani, alta 1 metro e 65, figlia di Paolo e Vittoria Arzenton, gestori di un bar in via Volturno a Roma, prima liceo all’istituto professionale per il turismo e il commercio «Padre Reginaldo Giuliani», scomparsa un giorno prima della festa della donna 26 anni fa. Poco altro. Consegnata alla cronaca con tutta l’avarizia di dettagli che spetta ai comprimari, in seguito aggregata nei titoli di apertura dei giornali solo da un ”e”, la congiunzione che di tanto in tanto lega la sua scomparsa a quella di Emanuela Orlandi come un evento secondario, una subordinata del dolore, un lutto minore. Emanuela Orlandi ”e” Mirella Gregori. La cittadina vaticana, la figlia del barista. I riflettori sparati a palla sulla prima, solo lame di luce riflessa su quell’altra. Entrambe 15 anni, entrambe inghiottite da un abisso sconosciuto, entrambe ricercate senza sosta da genitori sfiniti dal dolore, entrambe trasformate in due fantasmi lungo le traiettorie tortuose che lambiscono misteri e zone oscure, il terrorismo turco, la Stasi, lo Ior, la mafia, la Banda della Magliana.. E adesso che il fantasma di Emanuela ritorna prepotentemente in scena, dall’ombra si trascina dietro il fantasma di Mirella, che la segue a distanza, timidamente, nel ruolo della non- protagonista, come sempre, col peso più leggero della sua tragedia accessoria.
Da quando papà Paolo e mamma Vittoria sono morti, il compito di tenere viva la memoria di Mirella, e di lottare ancora nella ricerca della verità, è rimasto ad Antonietta, sua sorella. Ogni giorno lei rivive l’angoscia di quella nottata in giro per Roma con il fidanzato ed un amico a cercare Mirella convulsamente in tutti gli ospedali. Ogni giorno sgrana come un rosario le tappe terribili di tutti gli anni successivi, lei e i suoi genitori a farsi consumare l’anima dalle notizie false, dai depistaggi, dai personaggi ambigui, a oscillare tra le speranze disilluse e gli appelli disperati, «almeno ridateci il suo corpo». Negli occhi ha ancora, Antonietta, quello sguardo da cerbiatta incorniciato da una corona riccioli neri, che solo un anno e mezzo fa è comparso su tutti i muri di Roma per la prima volta accanto al sorriso solare di Emanuela, per commemorare i 25 anni di quelle due scomparse, restituendo un’equità al dolore. E poi, negli occhi, da qualche tempo Antonietta ha pure qualcos’altro, la proiezione di un incubo dal quale non si sveglia mai: il sacco nero gettato nella betoniera assieme a quello con dentro Emanuela Orlandi. La spaventosa sequenza che ha descritto la supertestimone Sabrina Minardi. Cosa c’era in quel secondo sacco? Chi?
«Perché la superteste non parla di Mirella, oltre che della Olrandi?», «perché di Mirella non gliene frega niente a nessuno?», scrivono alcuni in un blog. Così, in un anfratto del web, qualcuno cerca di esorcizzare il veto della memoria collettiva. «Tanto tempo fa ho avuto la fortuna di conoscere Mirella. Ricordo la sua dolcezza, la sua educazione, la sua genialità a scuola». Una compagna di scuola. Ha 36 anni, la stessa età che avrebbe Mirella. Dice che non ha perso la speranza. Forse mente a se stessa, cercando di non perdere almeno la memoria.