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 2010  marzo 13 Sabato calendario

2 articoli - EMANUELA ORLANDI, IL RACCONTO DI UN MISTERO: 27 ANNI E LA CONFESSIONE IN UNA TELEFONATA - C’ è addirittura una confessione registrata, sul sequestro di Emanuela

2 articoli - EMANUELA ORLANDI, IL RACCONTO DI UN MISTERO: 27 ANNI E LA CONFESSIONE IN UNA TELEFONATA - C’ è addirittura una confessione registrata, sul sequestro di Emanuela. La voce un po’ alterata di un uomo che, nello sfogo con una donna ungherese, ammette che lui ha avuto un ruolo nel sequestro della figlia di un dipendente della Santa Sede, cittadina vaticana, scomparsa nel centro di Roma il 22 giugno 1983, all’ età di 15 anni. Una ragazzina alta un metro e sessanta, capelli lunghi, jeans, camicia bianca e scarpe da ginnastica. Così era uscita di casa l’ ultimo giorno in cui ha dato notizia di sé, quasi 27 anni fa, quando sparì nel nulla e cominciò a diventare un «mistero italiano». Uno dei tanti che s’ intrecciano tra loro - dallo scandalo dello Ior al delitto Calvi, passando per i legami oscuri della banda della Magliana - fino a formare un gomitolo dove tutto si confonde. Ma adesso, un filo di quel gomitolo sta nella voce dell’ uomo che avrebbe pronunciato una frase piuttosto esplicita: «L’ ho fatto per soldi, e non mi pento». Inquirenti e investigatori hanno pochi dubbi su chi ha detto queste parole e a proposito di che cosa, ma il sospettato nega. Quando gliele hanno contestate ha risposto che lui non sa nulla del rapimento di Emanuela, non ha ne ha mai parlato al telefono e tanto meno in quei termini. La conversazione non se la ricorda, e se pure avesse parlato delle malefatte che in gioventù gli hanno portato soldi, si riferiva ad altre vicende. Ma la donna ungherese aveva esplicitamente accennato al sequestro di quella ragazza, ha ribattuto il pubblico ministero nell’ interrogatorio, disse che era andata a caccia di informazioni su Internet. L’ uomo non s’ è mosso di un millimetro. Nega quella specie di confessione come nega di aver mai svolto il ruolo di autista per Enrico De Pedis, il «Renatino» della banda della Magliana che di quella misteriosa scomparsa sarebbe stato l’ artefice, il mandante principale; se per conto terzi o in proprio, ancora non si sa. Così come non si sanno troppo cose di questo mistero, che però comincia e finisce - sono due tra le poche certezze - nella basilica minore di Sant’ Apollinare, la chiesa a due passi da piazza Navona, fondata da papa Adriano I intorno al 780. All’ interno di quell’ edificio ricostruito quasi mille anni dopo per volere di papa Benedetto XIV c’ era la scuola di musica frequentata da Emanuela, dov’ era andata anche il pomeriggio del 22 giugno ’ 83; e nei sotterranei di Sant’ Apollinare è ancora oggi sepolto, tra prelati, nobili e semplici cittadini dei secoli andati, proprio «Renatino» De Pedis, assassinato poche strade più in là, in via del Pellegrino, il 2 febbraio 1990. Sostengono i magistrati e i poliziotti della squadra mobile di Roma che Sergio Virtù, l’ uomo a cui è stata contestata l’ intercettazione sul rapimento, era uno di quelli che negli anni Ottanta accompagnava «Renatino» nei suoi affari. Virtù, che oggi ha 49 anni, è in carcere per altri motivi, ed è uno dei tre nuovi indagati per il sequestro Orlandi, aggravato dalla presunta morte e dalla minore età dell’ ostaggio. Lui si chiama fuori dall’ intrigo al pari degli altri due, Angelo Cassani detto «Ciletto» e Gianfranco Cerboni chiamato «Giggetto», stessa generazione e agganci simili col sottobosco malavitoso romano d’ un tempo e di diretta derivazione degli ambienti della banda della Magliana. «Ciletto» e «Giggetto» dicono di non conoscere Sergio Virtù, e pure loro cercano di tracciare una linea di separazione netta da Enrico De Pedis. Ammettono soltanto una frequentazione con Giorgio Paradisi, un altro ex della Magliana morto in carcere nel 2006. Ma gli investigatori sono invece convinti che i legami con «Renatino» ci fossero, per questi due come per Virtù, riconosciuto nel ruolo di autista di De Pedis da Fabiola Moretti, la «pentita» della banda, grande amica di «Renatino» che fu la donna del boss Danilo Abbruciati e poi di Antonio Mancini. Tutti nomi «di livello» della gang criminale che comandava a Roma negli anni Settanta e Ottanta, altro spessore rispetto alle seconde e terze file chiamate ora in causa per il sequestro Orlandi. Ma l’ ambiente è quello, e tutti portano a «Renatino», nonostante i dinieghi che non sembrano preoccupare gli accusatori. Del resto gli ultimi due inquisiti negano perfino i soprannomi. Soprattutto Cassani, il quale si fa forte di una sentenza nella quale i giudici sostennero che non si poteva stabilire che fosse lui il «Ciletto» indicato come autore di un determinato delitto. Ma la polizia ha ritrovato una lettera scritta in carcere da Cassani, in cui la firma è «Ciletto er chillerino», cioè un piccolo killer, nonostante l’ errore di ortografia; una lettera di oltre vent’ anni fa, piena di riferimenti ad altri soggetti come «er pinguino» e «er cecione». Anche di fronte a quel foglio Cassani non s’ è mosso di un millimetro: «Io ero il killerino, Ciletto è qualcun altro», ha risposto tentando di sdoppiare il soprannome. Nomi e nomignoli s’ intrecciano di continuo in un’ indagine complicata, dove gli investigatori hanno messo in carniere anche dei riconoscimenti fotografici di un paio d’ indagati, fatti su immagini dell’ epoca, ad opera degli amici di Emanuela Orlandi. Li hanno indicati come molto somiglianti alle persone notate per strada intorno alla ragazza, che nei giorni precedenti alla scomparsa si sentiva seguita; lei come un’ altra ragazza cittadina vaticana: Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, assistente personale di Giovanni Paolo II e prima, secondo informazioni raccolte dalla Procura, «stretto collaboratore di Marcinkus», il monsignore che fu presidente dello Ior, la banca della Santa Sede. Tra le ipotesi scandagliate ci fu pure lo scambio di persona, visto che il padre di Raffaella Gugel in quei giorni aveva allontanato la ragazza da Roma, ma le verifiche non hanno portato a nulla. E comunque, se pure all’ ultimo momento fosse stato cambiato l’ obiettivo, questo non allontanerebbe le responsabilità di De Pedis e della sua banda. A svelare per la prima volta l’ ipotetico legame fu, due anni fa, Sabrina Minardi, l’ ex amante di «Renatino» De Pedis, attribuendosi perfino un ruolo nella gestione del sequestro. Ma il suo racconto è pieno di inesattezze ed elementi di scarsa credibilità, e ormai gli investigatori l’ hanno relegato a spunto d’ indagine, potendo contare su ben altri elementi. Che li hanno portati a identificare con una buona dose di certezza l’ autore delle telefonate fatte a casa Orlandi nel 1983, pochi giorni dopo il rapimento: diceva di chiamarsi Mario, e aveva fornito qualche particolare sulla ragazza, ma poi le chiamate s’ interruppero. E c’ è pure un altro «telefonista» che la polizia sta cercando di rintracciare: quello che nel 2005 intervenne alla trasmissione televisiva Chi l’ ha visto? per segnalare presunti favori fatti da «Renatino» De Pedis al cardinale Ugo Poletti, il vicario del Papa che il 10 marzo 1990 firmò personalmente il nulla osta per seppellire nella cripta di Sant’ Apollinare il bandito assassinato un mese prima in via del Pellegrino. Poi sono arrivati gli altri elementi, che hanno portato agli indagati di oggi che negano tutto. Compreso l’ autore della presunta «confessione» intercettata; l’ unica ammissione di Sergio Virtù riguarda la conoscenza con Claudio Sicilia, un altro bandito della Magliana che ha pure lui un ruolo nella nuova indagine sulla scomparsa di Emanuela Orlandi: dagli atti raccolti negli ultimi mesi risulta che Sicilia sapeva che a organizzare il rapimento fu «Renatino», ma oggi non può confermarlo. Dopo aver subito un paio di attentati, dal terzo non s’ è salvato: l’ hanno ammazzato a colpi di pistola, in una strada della zona sud di Roma, la sera del 18 novembre 1991. (1. Continua) Giovanni Bianconi SOLDI E SEGRETI, IL CASO ORLANDI. LA PISTA DELLA VENDETTA ANTI IOR -Quando arrivò in Italia dal Venezuela dove l’ avevano arrestato, e poco dopo si venne a sapere che era diventato un pentito, qualcuno lo chiamò il «Buscetta della Magliana». All’ anagrafe era Maurizio Abbatino, i compagni d’ avventura lo chiamavano «Crispino» per via dei capelli ricci e increspati, ed era uno dei capi della gang criminale romana che si radunò intorna alla figura di Franco Giuseppucci detto «er negro», rapinatore con un occhio solo ma dal grande fascino, assassinato per un regolamento di conti in una piazza di Trastevere, nel settembre 1980. Accanto al nucleo originale della banda crebbe come figura e come ruolo Enrico «Renatino» De Pedis, a sua volta ucciso nel centro di Roma nel febbraio 1990, del quale Abbatino ha molto parlato nei suoi interrogatori. Senza mai dire, prima del dicembre scorso, che aveva avuto un ruolo nel sequestro di Emanuela Orlandi. Solo tre mesi fa, quando l’ hanno convocato i pubblici ministeri che hanno riaperto l’ inchiesta sul rapimento della quindicenne cittadina del Vaticano, scomparsa il pomeriggio del 22 giugno 1983, ha svelato quel che aveva taciuto prima. Assieme alla sua fonte. «A organizzare il sequestro fu "Renatino" De Pedis, per come mi disse Claudio Sicilia», cioè un altro pentito della banda che rese decine di interrogatori fra l’ 86 e l’ 87, ma i giudici non ritennero che sulle sue dichiarazioni si potesse condannare qualcuno. Le assoluzioni non bastarono a salvargli la pelle e poco dopo che anche lui tornò libero, un killer lo tolse dalla circolazione con quattro colpi di pistola. Dunque Sicilia confidò ad Abbatino, secondo quello che «Crispino» racconta solo oggi, che De Pedis sequestrò Emanuela. Perché non lo disse nel 1992, quando avviò la sua collaborazione della giustizia? «Perché nessuno me l’ ha chiesto», ha risposto Abbatino, aggiungendo di aver capito che su certi fatti (o presunti tali) sarebbe stato meglio per lui tacere; uno di questi erano gli agganci tra banditi della Magliana e alti prelati, un altro il caso di quella ragazzina rapita. Adesso invece ha parlato. Sicilia, chiamato «il vesuviano» per le sue origini campane, è una fonte importante. Fu il primo pentito a parlare dell’ assassinio di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato a Londra - sotto un ponte sul Tamigi, in un suicidio simulato - nel giugno 1982. Disse che era un delitto dove c’ entrava la fazione della camorra più vicina alla Cosa Nostra siciliana, e aveva come movente un investimento di soldi mafiosi andato male. Ipotesi che ancora oggi - a 28 anni dall’ omicidio - viene sostenuta dall’ accusa in un processo d’ appello, dopo le assoluzioni di primo grado. Nelle fluviali dichiarazioni di Sicilia, rese quando De Pedis era ancora vivo, non c’ è traccia del sequestro Orlandi né dell’ ipotetico ruolo di Renatino; se è vero quello che oggi narra Abbatino, anche lui deve aver pensato che era poco prudente parlare di questioni che riguardavano il Vaticano e le sue finanze. Perché il movente del sequestro, secondo Abbatino e secondo l’ altro pentito Antonio Mancini chiamato «Accattone», è di tipo economico. Alcuni boss della Magliana come lo stesso De Pedis e Danilo Abbruciati, i cosiddetti «testaccini» della banda, avevano investito dei soldi nello Ior, la banca della Santa Sede. Nel 1983 li rivolevano indietro, ma evidentemente faticavano a incassare quanto gli era dovuto, e così s’ inventarono quello strumento di pressione. «L’ alternativa era fà ritrovà ’ na berretta rossa o viola per terra», ha spiegato col suo linguaggio colorito Antonio Mancini, per dire che l’ altra possibilità era l’ omicidio di un vescovo o un cardinale, un po’ troppo «rumorosa» anche per criminali con pochi scrupoli come quelli della Magliana. Così avrebbero ripiegato sul sequestro della ragazza. L’ «accattone» dice di aver sentito parlare del ruolo di De Pedis in questa vicenda, ma senza indicare la provenienza precisa della voce. «Si diceva», e basta. Così come degli investimenti particolari dei «testaccini», che però hanno qualche riscontro in altri fatti di sangue. Due mesi prima dell’ omicidio di Roberto Calvi - che pure trafficava con lo Ior, e alla vigilia della morte aveva scritto una lettera al papa polacco Giovanni Paolo II per cercare una via d’ uscita ai suoi guai finanziari - fu ferito a Milano il vice-presidente dell’ Ambrosiano, Roberto Rosone. L’ agguato andò male, e uno dei sicari rimase fulminato dai colpi sparati da una guardia giurata: era Danilo Abbruciati, amico di «Renatino», in trasferta da Roma per sparare al banchiere. Un attentato su commissione, si disse all’ epoca, ma che con le ultime testimonianze dei pentiti assume un’ altra lettura. Anche quello era un modo per sollecitare chi aveva un gestione una parte dei loro soldi. In ogni caso, fu un episodio che sancì la rottura tra ciò che restava della componente originaria della banda della Magliana e il gruppo di De Pedis. «Considerammo non più affidabili i "testaccini" - spiegò Abbatino in un verbale degli anni Novanta - in quanto propensi a strumentalizzare per fini personali l’ intera organizzazione, senza neppure rendere conto di iniziative che mettevano in pericolo la nostra attività. Conseguentemente adottammo la decisione di eliminarli quando se ne fosse data l’ opportunità». un ragionamento che potrebbe valere anche per il sequestro di Emanuela Orlandi, avvenuto un anno dopo, quando ormai la banda si stava disgregando e ognuno si muoveva per conto proprio; guardandosi le spalle per evitare di finire ammazzato. E muoversi intorno al luogo dove la ragazza andava a lezione di musica, l’ edificio di Sant’ Apollinare, non era un problema per gli uomini di De Pedis. Il rettore della basilica, don Piero Vergari, era un amico di «Renatino», conosciuto nel carcere di Regina Coeli dove il sacerdote si recava come volontario per aiutare il cappellano durante la detenzione del bandito. Da indagini e fonti confidenziali, sembra che alcuni giovani seminaristi che il prete accoglieva nei locali della basilica andassero a mangiare nelle cucine di un ristorante romano di De Pedis. Dopo l’ omicidio di «Renatino», fu proprio don Vergari ad adoperarsi con il cardinale Poletti, vescovo vicario di Roma, per ottenere che la salma di De Pedis, assassinato mentre percorreva in motorino una strada vicino a Campo de’ fiori, fosse tolta dal cimitero del Verano e sepolta nei sotterranei di Sant’ Apollinare. La realizzazione di un antico desiderio espresso in vita da De Pedis, «grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica», fu la giustificazione ufficiale messa per iscritto dal monsignore. I lavori di realizzazione della tomba costarono circa 37 milioni di lire, «e furono eseguiti da una ditta di fiducia del Vaticano», raccontò la vedova De Pedis agli investigatori. Oggi i magistrati che indagano sul sequestro di Emanuela Orlandi hanno ripreso gli accertamenti anche sulla vicenda di una sepoltura tanto nobile quanto inusuale per uno dei leader della banda della Magliana. Nell’ ipotesi, considerata attendibile, che sia un capitolo della stessa storia in cui s’ intrecciano preti, banditi, finanze vaticane e altri segreti ancora da svelare. Giovanni Bianconi (2-fine)