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 2010  marzo 13 Sabato calendario

QUEL «PATTO MARINO» SCRITTO DA D’ANNUNZIO

«Noi siamo oggi convenuti per restaurare, nella ferma pacificazione degli animi e nella cooperazione leale delle volontà, le fortune della Marina Mercantile italiana». Sono le prime tre righe del «Patto marino» del 21 luglio 1923, il primo grande accordo per la gente del mare «scritto a penna» da un protagonista inaspettato: Gabriele d’ Annunzio. La prima guerra mondiale era finita quasi cinque anni prima e la marineria italiana era in subbuglio, alle prese con il fascismo dopo essere stata attraversata, come tutta la società, dai lampi della lotta di classe. Alla vigilia del 1920 gli scioperi degli equipaggi dei mercantili avevano causato agli armatori perdite per 300 milioni di lire, più di 300 milioni di euro di oggi. La vicenda della cooperativa «Garibaldi» aveva approfondito la spaccatura, ormai insanabile, fra gli schieramenti politici. La destra accusava la sinistra, e di riflesso il governo di Francesco Saverio Nitti, di fomentare le idee bolsceviche, la sinistra replicava che la cooperativa difendeva i sacrosanti diritti dei lavoratori. La «Garibaldi» era stata costituita nel settembre 1918 come emanazione della Federazione sindacale dei lavoratori del mare, nata il primo maggio del 1909, e veniva alimentata con una percentuale delle paghe dei marinai e dei portuali. Gli armatori lamentavano che con quel meccanismo era nata una compagnia di navigazione che faceva concorrenza sleale, e che il forte aumento delle retribuzioni «imposto» dal sindacato e «subìto» dal governo li stava mettendo in ginocchio. Inutile dire che in questa situazione gli armatori salutarono l’ arrivo del fascismo come si saluta il Salvatore. Per la retorica nazionalista del regime di Mussolini rilanciare la marina era una priorità. E chi meglio di d’ Annunzio, eroe di guerra, trascinatore di folle, poteva riuscire nell’ impresa di far ritrovare l’ orgoglio alle «stirpi marinare» che «superarono in virtù espansive ogni esempio di Atene e di Corinto» e «diedero capitani a tutte le armate di tutti i mari»? Chi se non lui che aveva dedicato al mare poesie indimenticabili? «E l’ aurica vela / fu gonfia d’ un alito immenso, / più bella di tutte le cose / d’ intorno apparite...» Non era stato forse l’ esteta pescarese che il 5 maggio del 1915, sullo scoglio di Quarto, aveva infiammato l’ Italia dando un’ ultima spinta per l’ entrata in guerra con un memorabile discorso pieno di richiami all’ epopea risorgimentale, mentre scopriva il monumento ai Mille? E chi mai aveva scordato quelle parole dedicate all’ Eroe dei Due Mondi? «Il duce nel bronzo, eccolo, ha la statua e la possa di Teseo. Ma voi lo vedeste, santissimi vecchi, voi lo vedeste col suo corpo di uomo, con l’ umano suo corpo mortale, col suo passo di uomo sulla terra. Questo luogo egli lo traversò, con le sue piante di marinaio lo stampò, bilanciando su la spalla la spada sguainata. Udiste la sua voce fatale, più tardi nel silenzio della bonaccia, su l’ acqua piena di cielo. Taluni di voi lo vide frangere il pane sotto l’ olivo di Calatafimi? Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch’ egli volesse morire sopra uno dei sette cerchi disperati? Udiste allora la sua voce d’ arcangelo? Disse: "Qui si fa l’ Italia o si muore". A lui che sta nel futuro "Qui si rinasce e si fa un’ Italia più grande" oggi dice la fede d’ Italia». Il «nuovo Patto marino» fu scritto in questo clima. Un concentrato di retorica, condito da richiami alle tradizioni del «popolo di navigatori» e di motti («Fiat! Fiat!») dei quali il Vate era maestro. Non è un contratto di lavoro. Anche se può essere considerato la base dei futuri contratti degli ufficiali e dei marinai della flotta pubblica. Non è nemmeno un accordo, perché allora accordi sindacali non se ne facevano. Ma le concessioni al sindacato ci sono eccome. Anche di natura politica. «Noi vogliamo augurare che la nobiltà della rinnovata Patria possa non troppo tardi addimostrare il suo riconoscimento agli equipaggi della Marina mercantile accordando ad essi la polizza dei combattenti. E anche vogliamo augurare che il nuovo governo d’ Italia possa concedere agli equipaggi in navigazione il diritto di voto politico, guarantendone con opportuni modi la sincerità e sicurtà», scrive d’ Annunzio nel «proemio» del «Patto». Un documento di sette brevi articoli, con le regole essenziali. Per prima cosa si stabiliva un contributo obbligatorio del 2% a una specie di fondo comune, «che ha nome antico e recente di significato spirituale e di fraterna comunanza ’ Provvisione di benefizio’ ». Il «Patto» assicurava quindi l’ impegno del governo a non modificare i «regolamenti organici», cioè i contratti fra i marinai e le compagnie di navigazione, precisando che «ogni ritocco», possibile solo quando fosse stato «superato il disagio economico che tuttavia travaglia la Nazione» sarebbe comunque avvenuto «non con l’ intento di menomarne il diritto acquistato». Tutte le controversie di natura economica fra armatori e marinai dovevano essere risolte da un collegio arbitrale. Il quale avrebbe dovuto stabilire anche l’ indennità di licenziamento spettante agli «addetti alle manovre di bordo o alla cura delle spese» sulle «linee marittime percorse con sovvenzione dello Stato» nel caso in cui fossero «licenziati per infermità o per vecchiezza o per mancanza di officii». Sarebbe stato compito dello stesso collegio «eletto per accordi e per suffragi», cioè una specie di autorità comune fra armatori e marittimi, a decidere anche i turni degli imbarchi «evitando qualsiasi esclusione persecutrice e qualsiasi privilegio odioso a danno della gente marina d’ ogni mestiere e d’ ogni comando». Ultima concessione alla cooperativa Garibaldi, con la promessa di un pronto versamento dei crediti vantati verso lo Stato, e di agevolazioni per «l’ acquisto delle navi-cisterne alla regia Marina superflue». Gli armatori, i quali probabilmente si aspettavano qualcosa di più, non fecero salti di gioia. Tanto che sette mesi dopo, l’ 11 febbraio 1924, nella villa di Cargnacco di Gardone Riviera che aveva ribattezzato il Vittoriale, d’ Annunzio li riunì per convincerli «che questo tanto travagliato Patto è vivo e vivace perché riesce appunto ad accordare nel suo proemio e ne’ suoi capitoli la più insigne tradizione col più animoso avvenire e la più alta aspirazione con la più ignuda realtà.» E poi, come «certe ordinazioni del Principato di Catalogna», quel «Patto» si sarebbe potuto sempre «dichiarare correggere emendare interpretare tante volte quante sarà bisogno». «Così la saggezza antica... viene incontro alla nuova saggezza...» Quale? Ma quella della «data, forse fausta, forse infausta, secondo le favole e le credenze, risospinta di là da quella del sesto anniversario di una impresa navale condotta da quel grandissimo marinaio che oggi è commissario per la Marina mercantile». Quale impresa? Ovvio: la Beffa di Buccari, l’ azione condotta dai Mas comandati da Costanzo Ciano a cui aveva partecipato anche d’ Annunzio. L’ incursione dei motoscafi italiani con trenta uomini a bordo che erano penetrati per 80 chilometri nelle linee austriache fino alla baia di Buccari, a sud di Fiume, dove avevano lanciato sei siluri contro le navi austriache. Nessun danno reale al nemico, ma un figurone: «Eravam trenta su tre gusci, su tre tavole di ponte; / eravam carne del Carnaro e anima della sanguinosa Italia, / comunicati con un’ ostia tricolore»... «Ora io dico che in questo Patto», scrisse d’ Annunzio quel giorno al Vittoriale, «vige tuttavia lo spirito di quel Consolato del Mare disposto "così a beneficio di marinari come di mercanti e patroni di navi e di navilii"». Arrivando a scomodare, lui, l’ eroe di guerra, perfino l’ apostolo della nonviolenza arrestato dalle autorità inglesi: «Ed è un segnale luminoso questo: ch’ io abbia ripetuto, or è alcuni giorni, ai marinai d’ Italia e a tutti gli Italiani non bastardi, nell’ esortarli al sacrificio, la parola del paziente e costante messia delle Indie Mahatma Gandhi, ’ prigione degli oppressori’ , e che in questi giorni il messia della perfetta abnegazione sia alfine liberato». E quando mai si era sentito prima (e quando mai si sarebbe sentito dopo) un linguaggio «sindacale» di tal fatta? Eppure, a rileggere tutto oggi, viene in mente l’ antica raccomandazione: «Ofelè fa el to mestee». Diciamolo: molto meglio il D’ Annunzio innamorato del mare de«L’ onda»: «Sciacqua, sciaborda, / scroscia, schiocca, schianta / romba, ride, canta, / accorda, discorda, / tutte accoglie e fonde / le dissonanze acute / nelle sue volute profonde, / libera e bella...». Sergio Rizzo Gian Antonio Stella