Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 11 Giovedì calendario

PALMA BUCARELLI

Nata a Roma in una famiglia borghese che aveva casa in piazza Ippolito Nievo, morta a Roma a 88 anni nel 1998, Palma Bucarelli è stata per quasi mezzo secolo la regina dell’arte italiana del Novecento, la ”regina di quadri” come recita il titolo della ricca e appassionata biografia che le ha dedicato Rachele Ferrario, Regina di quadri (Mondadori, pp. 334, euro 20). Un libro che è piuttosto un romanzo da come vi si intersecano i pittori e i critici d’arte che fanno da personaggi traenti, e le vicende talvolta brucianti dell’arte italiana che va dai Quaranta ai Settanta, e gli scontri fra astrattisti e figurativi che sconfinavano in vere e proprie guerre aperte, e le rivalità e le invidie che prendevano a bersaglio quella ”regina di quadri” che aveva troppo di tutto e che aveva tenuto «a sua disposizione» alcuni degli uomini più pregevoli del suo tempo, da Paolo Monelli al futuro sindaco di Roma Giulio Carlo Argan, dal famoso chirurgo Cesare Frugoni al giornalista Vittorio Gorresio. «Non ho mai conosciuto una che come Palma Bucarelli ti guardasse dall’alto in basso anche quando era seduta», disse di lei l’attrice Anna Proclemer, una che pure non scherzava in fatto di alterigia e lucentezza femminile.
Rara avis di beltà
Quando Monelli, uno dei più grandi giornalisti italiani del secolo scorso e futuro marito della Bucarelli, uno che negli anni Trenta teneva un piede nel regime e uno fuori, la raccomandò nel giugno 1937 al ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai perché la facesse trasferire da Napoli a Roma, scrisse così: « una ragazza intelligentissima che messa in condizioni di lavorare senza preoccupazioni può rendere moltissimo: è anche così carina che è dovunque un lustro per la sua classe, altrimenti così squallida d’aspetto». E Monelli voleva dire che la Bucarelli era talmente bella in un mondo, quello della cultura e dell’arte, dove di solito le donne non lo erano affatto.
A metà strada tra i venti e i trent’anni non è che fosse bella, era magnetica. Piccolina di statura epperò appariva come una che ascendesse verso il cielo da quanto procedeva risoluta e imperiosa. I vestiti da sera i più accurati, i capelli biondi acconciati a farle da corona, e poi quegli occhi fiammeggianti che a Indro Montanelli parvero «viola». Non è che fosse bella, trafiggeva qualsiasi uomo apparisse a portata del suo sguardo. Al tempo di un’Italia che in fatto di arte e della sua organizzazione era ricca di talenti ma anche sciatta e provinciale (oltre che povera col botto), lei impugnò il bastone di comando della Galleria Nazionale d’Arte Moderna quando aveva poco più di trent’anni e lo usò fino al 1975 con la destrezza di un generale napoleonico. E del resto lei quello era: a metà una Greta Garbo che volteggiava nel mondo dell’arte, a metà un generale napoleonico.
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna la prese che era malconcia e marginale e restia all’arte contemporanea e ne fece l’istituzione di punta della pittura italiana. Diceva di se stessa che lavorava 14 ore al giorno, un lavoro dove non aveva collaboratori e bensì soltanto sudditi. Reputava che quanto a sguardi e ad atti di ammirazione da parte degli uomini, tutto le fosse dovuto. Quando alle 8.30 del mattino arrivava puntuale la telefonata di Giulio Carlo Argan, lo storico e critico d’arte che l’aveva spinta in direzione dell’astrattismo e che è stato uno dei grandi amori della sua vita, lei lo faceva aspettare al telefono.
Quando nel 1959 i comunisti la attaccarono violentemente in Parlamento (per la bocca altrimenti prestigiosa di Umberto Terracini, a dimostrazione del fatto che una cosa è essere protagonista in politica e tutt’altra saper giudicare le cose d’arte), e questo perché lei aveva osato dedicare una mostra della Galleria ad Alberto Burri, una delle vette della pittura moderna non soltanto italiana, lei non battè ciglio per quanto disprezzava i loro argomenti. Di quelli che la attaccavano e calunniavano diceva che facevano un buon lavoro, perché comunque le portavano pubblicità. Nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta passava voce che nella casa di una famiglia dove c’erano ragazze dabbene lei non sarebbe potuta entrare: fiera e indipendente, era una donna che i maschi se li metteva in casa e che viveva da sola strainfischiandosene di tutto e di tutti.
Con i difensori acerrimi della supremazia della figuratività in pittura la sua fu una lotta inesausta durata trenta e passa anni: si fossero incontrati una sera, revolver alla mano, da una parte Renato Guttuso e Antonello Trombadori, dall’altra lei e magari Argan, sarebbe finita in una strage peggio che all’Ok Corral. Quanto al rozzo parlamentare democristiano che le aveva dato addosso perché aveva osato mettere in mostra le famose ”Merde d’artista” del grande Piero Manzoni, Palma lo trattò come se fosse lui dello sterco fumante.
Giampiero Mughini, Libero 11/3/2010