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 2010  marzo 13 Sabato calendario

TANTA VOGLIA DI FOLK (2

articoli) -
Molti hanno cominciano a provarci, in un calderone pittoresco che mette insieme (e senza stare troppo a distinguere) l’uso dei dialetti, i canti della tradizione caduti nel dimenticatoio di noi popoli senza memoria, il massiccio revival turistico della taranta, le canzoni degli Anni ”40-50, perfino i cori polifonici: in breve, c’è una vaga nostalgia di ciò che un tempo veniva chiamato folk. Nell’Italia del conformismo e del Principe televisivo vincitore morale del Festival, l’annuncio che Sanremo avrebbe ammesso in gara le canzoni in dialetto è stato solo un segnale che qualcosa bolle in pentola: e infatti c’è un ancora segretissimo progetto per far nascere in giugno sulla rete ammiraglia Raiuno un grandioso Festival del Dialetto, in prima serata, ben presentato: «dev’essere meglio di Sanremo», è stato il diktat dalle alte sfere (in realtà era quasi pronto, poi è tornato tutto in alto mare: senza un giusto esito delle future, tribolate elezioni, probabilmente non si andrà avanti).
Si ricordano tentativi, negli ultimi vent’anni, per resuscitare il folk. Sempre senza esito. Ci provò già nel ”91 il prode Ligabue, con un coro alpino dentro Lambrusco, coltelli, rose & popcorn; qualche tentazione ha avuto la Nannini, ma la tradizione della sua Toscana ha fatto meno successo che il rock; mirabilmente restituirono l’idea del canto popolare due numeri uno, Francesco De Gregori e Giovanna Marini, nel cd Il fischio del vapore; finché l’anno scorso Simone Cristicchi, invitando il coro di minatori di Santa Flora del monte Amiata, ha cominciato ad aprire i concerti con Maremma Amara, stupefacendo il giovane uditorio: e il mix fra lui e il coro è pure approdato al recente Sanremo con Sarko-sì/Sarkò-no, suscitando qualche curiosità da verificare. Adesso, sta uscendo un disco intrigante di una storica folk-band marchigiana, Gastone Pietrucci&La Macina, «Aedo Malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto vol.III»: tradizione e inediti intrecciati con piglio e delicatezza, la Banda Osiris e Sparagna come ospiti. Ma diciamo la verità: è un disco che non verrebbe mai scelto come colonna sonora del Grande Fratello.
Eppure, ”sto folk spinge per rinascere. Di cori di dilettanti è piena l’Italia. Ci sono austeri professionisti che si sfogano così, la sera, dandoci dentro in coro con l’Uva Fogarina e Mi Sun Chi in Filanda, e sanno di repertorio tradizionale come dei loro bilanci aziendali.
Ma i ragazzi - ingrediente fondamentale di ogni passione nascente o rinascente - a tali suggestioni restano estranei. Ci ha messo del suo, per contrastare l’omologazione globalizzante e ringiovanire il dialetto, pure il Mei, il Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza: ha prodotto una compilation, Aie d’Italia, sotto l’egida del Ministero della Gioventù, con 33 nuovi brani dialettali da tutte le regioni; hanno chiamato band che furono di grido come i Mau Mau o Teresa De Sio, e scritturato talenti ansiosi di sfondare. Risultato artistico deludente, però il Mei ci sta riprovando in questi giorni con un’idea romagnola: poiché nei locali italiani sta andando fortissimo il country, con scuole di ballo alla cow-boy dove la gente fa la fila, hanno scritturato Massimo Bubola, storico cantautore, per riscrivere a country l’immortale Romagna Mia e altri classici di genere come la kitschissima Ciao Mare: «L’intenzione è di avvicinare il liscio alle sonorità più vicine al rock-folk contemporaneo», dicono al Mei. In effetti, di chitarre trasuda con Bubola la nuova Romagna Mia, senza perdere i propri afrori: ma apparirà abbastanza cool al giovincelli?
Pure la discografia ufficiale ha le sue brave tentazioni, con qualche risposta. Ha venduto 35 mila copie la compilation Dialetti d’Italia uscita alla vigilia di Sanremo: è una raccolta che denuncia lo stesso pressapochismo grammaticale che ha animato Il più grande su Raidue, con Pausini e Mina davanti a Dante e Galileo: qui Fratelli d’Italia convive con Ciao Turin e Quel mazzolin di fiori; Sciur parun da li beli braghi bianchi se la gioca con O’ Fridigeiro di Lauzi, Roma nun fa la stupida stasera precede Calabrisella. Improbabile, come minimo.

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INTERVISTA A GIOVANNA MARINI -
Ogni anno faccio un giro di ricerca di canti della tradizione orale con i miei allievi (vecchi e giovani, vanno dai 20 ai 73 anni) del corso di «Estetica del canto di tradizione orale» che tengo alla Scuola popolare di Musica di Testaccio, a Roma. un viaggio che ci diverte molto e ogni anno il gruppo aumenta di numero, malgrado la crisi. Il titolo del corso è volutamente ricercato, poco attraente, proprio per evitare che accorrano persone bramose di cantare Quel mazzolin di fiori. interessante notare il grande avvicinamento della nostra borghesia cittadina a questo argomento, forse dovuto a reminiscenze affettive; un nonno che cantava nei campi, una nonna che intonava ninna-nanne che oggi le mamme non cantano più.
Da parte dei media, l’attenzione per il canto e per la musica di tradizione orale non c’è, in compenso il favore popolare che colgo nei miei tour, quello sì, mi sembra autentico. Trovo invece strumentale l’uso che i media fanno del termine «popolare», il bisogno addirittura imprescindibile di portare sulla scena lavoratori di vario genere, minatori (ne abbiamo visti perfino al Festival di Sanremo) e ogni personaggio che possa risultare di moda.
Per quanto riguarda lo studio del canto di tradizione orale (mai confonderlo con «popolare», invece è contadino, raro esempio degli inizi della Storia della Musica), bisogna considerare che questo si mischia con forme ancora vive come il Discanto, praticato nelle feste paesane di Marche, Toscana, Lazio, Puglia e Calabria, o l’Organum o il Falso Bordone. I cantori autentici educano i propri figli e mantengono viva la tradizione, attraverso gare poetiche in ottava rima a cui partecipano anche i giovani. E come non ricordare la scuola di musica del Circolo Gianni Bosio a Roma, dove a insegnare sono i vecchi poeti? Tutti esempi di una musica non persa, ma poco conosciuta, mantenuta come materia preziosa da museo, eppure ancora viva. Che necessita di enorme passione e di tanta dedizione in termini di tempo, impensabile oggi. Soprattutto se si considera la moda isterica di incrementare il mercato sotto qualsiasi forma, a prescindere dalla sostanza di ciò che si commercia.
Devo ammettere: non ci capisco più niente. La voglia, il desiderio di sapere, di conoscere, di apprezzare le cose belle e i canti della tradizione orale c’è, e molto, ma viene improvvisamente sviato e incanalato in rivoli dove i sentimenti e le emozioni diventano soldi che corrono nelle tasche di coloro che hanno come unico interesse il ritorno economico. l’immagine di un mondo di gente ignara di tutto ma che ha imparato a contentarsi: non si va più alle radici, non si approfondisce più nulla, basta l’apparire, anche fugace, e il resto non conta.
Tutto ciò mi mette un senso di allarme tale da farmi ritirare nel mio guscio, fatto di poco ma sicuro, che non è proprio quello che volevo.