Michele Masneri, Il Riformista 12/3/2010, 12 marzo 2010
IL MOMENTO NO DEI MARAMOTTI ALLE PRESE COL FISCO (E GLI ANIMALISTI)
A Reggio Emilia le dinastie della moda soffrono. Se i Burani sono stati coinvolti nel fallimento della holding Bdh e hanno dovuto forzatamente abbandonare il business dell’abbigliamento, con il loro impero Mariella Burani Fashion Group che è stato messo in liquidazione, anche la dinastia più in vista della città, i Maramotti, rischia di perdere l’immagine di successo a cui aveva abituato i suoi concittadini e legato i destini reggiani. I proprietari della Max Mara, colosso dell’abbigliamento con un giro d’affari superiore al miliardo di euro, con circa 1200 boutique sparse in 90 paesi, e marchi conosciuti e stimati come Marina Rinaldi, Max & Co. e altri devono innanzitutto vedersela con una brutta vicenda di evasione fiscale.
Luigi Maramotti, succeduto al padre Achille alla guida del gruppo, è stato rinviato a giudizio dal Tribunale di Reggio Emilia e dovrà comparire dinnanzi ai giudici il prossimo 7 ottobre per rispondere di evasione fiscale per 10 milioni di euro, nel periodo che va dal 2004 al 2007. Al dibattimento si approda dopo una complessa indagine condotta dalla guardia di finanza. Nel mirino delle Fiamme Gialle era finita una società con sede legale a Lugano, in Svizzera, la International Fashion Trading che si occupa di commercializzare il marchio Max Mara all’estero.
Secondo gli investigatori e secondo gli ispettori dell’Agenzia delle Entrate mancherebbero all’appello una decina di milioni di euro che la società International Fashion Trading avrebbe dovuto versare allo Stato italiano. Un caso tipico di «esterovestizione», ovvero una società cammuffata da società di diritto estero (e quindi non soggetta al fisco italiano), ma in realtà al cento per cento italiana. Un verdetto inatteso per Maramotti, che puntava invece a un completo proscioglimento dopo che la Commissione tributaria provinciale mesi fa aveva accolto in toto le ragioni dell’imprenditore più importante di Reggio. Non solo accogliendo il ricorso contro l’avviso di accertamento recapitatogli dall’Agenzia delle Entrate ma condannando addirittura la stessa agenzia a rifondere le spese processuali.
Ma per la famiglia Maramotti i guai non sono finiti qui, anche a livello di immagine. C’è anche un thriller surreale che li coinvolge. Da tempo infatti i muri della città emiliana sono tappezzati da cartelloni con la scritta: «Se il diavolo veste Prada, la morte veste Max Mara». Lo slogan campeggia sulle decine di manifesti affissi abusivamente in punti strategici della città. Sotto l’immagine eloquente della signora con la falce, c’è un messaggio animalista e un appuntamento che suona come una minaccia: «27 marzo: la verità verrà a galla». Non si sa bene a cosa si riferisca questa data ma sicuramente è parte di una strategia più ampia. Nelle ultime settimane infatti un gruppo aveva fatto irruzione nell’aula magna dell’università reggiana dove si stava procedendo alla cerimonia di consegna del «Premio Maramotti» agli studenti più meritevoli. Era allora stato distribuito un volantino in cui si denunciavano «complicità con campi di sterminio per animali». Anche lì, in calce al volantino, l’appuntamento era per il prossimo 27 marzo. Altri manifesti sono arrivati negli ultimi giorni: «Vuoi saperne di più sul lato oscuro del Max Mara Fashion Group e dei suoi legami con la signora morte e il sangue di vittime innocenti?» c’è scritto. Appuntamento sempre per Sabato 27 marzo. In attesa di questo fantomatico appuntamento, in città la vicenda sta diventando una specie di psicodramma: la procura ha formato un pool di magistrati, composto dai sostituti procuratori Maria Rita Pantani, Catia Marino e Marco Imperato. Sotto la lente dei pm ci sono anche una serie di «attentati» a base di scritte insultanti su residenze e automobili rivolti ai tre fratelli Maramotti: Luigi, Ignazio, Maria Ludovica. Tutti eredi di Achille, personaggio mitico dell’imprenditoria reggiana venuto a mancare nel 2005: classica figura di industriale venuto dal nulla, che alla fine della sua carriera troneggiava sulla città dal suo castello di Albinea. Aveva fondato uno dei gruppi più importanti del made in Italy e che era riuscito a giocare anche un ruolo nazionale nel risiko bancario: fino al 2005 era indicato da Forbes come il quarto uomo più ricco d’Italia, con un patrimonio personale di circa 2,5 miliardi di dollari. Nel tempo aveva messo insieme pacchetti importanti di partecipazioni: quella di maggioranza nel Credito Emiliano, poco sotto il 2 per cento in Unicredit, ed era anche divenuto membro del cda e dell’esecutivo di Mediobanca. Era inoltre un grande collezionista d’arte, molto amato in città. Altri tempi.
Michele Masneri, Il Riformista 12/3/2010