Rosanna Nacca Roccia, relazione al convegno di Santena del 10/10/2009, 10 ottobre 2009
Filippina di Cavour, nata de Sales: la fortuna dei Benso Alla marchesa Filippina di Cavour nata de Sales, nonna paterna di Camillo, Carlo Pischedda, eminente studioso di cose cavouriane e sperimentato interprete di grafie e di emozioni, dedicò negli anni 1990 e 1994 pagine intense che, arricchite successivamente di ulteriori spunti tratti da fonti documentarie inedite, furono ripubblicate nel volume miscellaneo Camillo Cavour
Filippina di Cavour, nata de Sales: la fortuna dei Benso Alla marchesa Filippina di Cavour nata de Sales, nonna paterna di Camillo, Carlo Pischedda, eminente studioso di cose cavouriane e sperimentato interprete di grafie e di emozioni, dedicò negli anni 1990 e 1994 pagine intense che, arricchite successivamente di ulteriori spunti tratti da fonti documentarie inedite, furono ripubblicate nel volume miscellaneo Camillo Cavour. La famiglia e il patrimonio, stampato nel 1997. Due i saggi pischeddiani su Filippina: l’uno a commento dello stupendo medaglione delineato dalla pronipote di lei, Giuseppina Alfieri di Sostegno, custodito tra le carte di Santena e portato per la prima volta integralmente alla luce dallo storico torinese nel 1994; l’altro a ricostruzione di una fase importante della vita della nobildonna, la quale, a vantaggio del casato d’origine e della nuova grande famiglia dei Benso, dal 1808 e sino alla caduta di Napoleone, accettò e sostenne suo malgrado l’incarico di dama d’onore di Paolina Borghese nata Bonaparte. In quei lavori, al solito limpidi e puntuali, l’Autore non aveva mancato di lumeggiare lacune, arbitri e interpretazioni affrettate o fuorvianti celati nelle pieghe dei segmenti della produzione storiografica cavouriana incentrati sulla figura dell’aristocratica savoiarda divenuta piemontese. Passando in rassegna la monografia di Domenico Berti (1886), gli studi di Paul Matter (1911, 1912) e di Francesco Ruffini (1912, 1942), nonché gli eccellenti capitoli introduttivi dell’opera di Rosario Romeo (1969), e, da ultimo, il partecipato commento di Eleonora Vincelli alle proprie trascrizioni epistolari (1995), Pischedda aveva sfumato, corretto e integrato la narrazione e il giudizio con il rigore del filologo, la competenza dello storico e la capacità d’analisi dello psicologo. I suoi lavori rimangono dunque i soli, solidissimi pilastri a sostegno della biografia, documentata e fedele, della longeva marchesa, che attende d’essere scritta: dal momento che – e mi sta a cuore rilevarlo a nome di chi non ha più voce ”, checché sostengano gli informatori di Google, non può essere considerato contributo alla ”Storia” il disinvolto, ancorché gradevole romanzo fondato su un diario intimo presunto e su testimonianze epistolari manipolate, apparso nell’anno 2000, con il pretenzioso corredo di una bibliografia sommaria e imprecisa, ove la miscellanea pischeddiana pubblicata tre anni prima non trova menzione. In attesa dell’auspicato profilo a tutto tondo, che la messe di testimonianze, molte delle quali inedite, consentirà di delineare nitidamente, vediamo di accostarci alla Filippina autentica, onde capire per quali meriti ella sia stata a lungo la buona stella della nobile famiglia dei Benso di Cavour. Nata nel castello di Duingt dal marchese Paul-François de Sales, quarto discendente di Louis, fratello minore di San Francesco, e da Josephte-Françoise de Regard, e vissuta ora ad Annecy, ora nel superbo maniero di Thorens, Francesca Filippina, alla vigilia dei vent’anni, aveva abbandonato il magico incanto della natura alpestre per seguire in Piemonte il quarantenne Giuseppe Filippo di Cavour, da pochissimi giorni suo sposo, il quale aveva fama di «buon soldato e gran cacciatore», ma che, del tutto privo di fascino, si sarebbe rivelato pigro, rozzo e trasandato, nonché amministratore improvvido delle sostanze familiari. La giovane aveva viaggiato «tenendo in grembo una pianticella di abete di Thorens» che avrebbe poi piantato a Santena, in ricordo delle magiche foreste della terra d’origine. Giunta a Torino, aveva trovato insediati a palazzo Cavour i tre cognati, conte Benso, cavalier Rodolfo e cavalier Uberto detto Franchino, dei quali tutti era tosto divenuta l’amica fraterna e devota. Il 30 novembre 1781 aveva dato alla luce un figlio, Paolo Michele Antonio, futuro padre di Camillo: la maternità l’aveva promossa a «centro» e «anima» della famiglia del consorte, sicché con piglio sicuro aveva assunto il governo della casa e l’amministrazione dell’incerto patrimonio. Gli eventi seguiti allo scoppio della Rivoluzione in Francia l’avevano costretta ad affrontare penosi sacrifici onde sopperire alle contribuzioni di guerra; soprattutto l’avevano privata della presenza del figliolo, costretto ad arruolarsi sedicenne nelle file dell’esercito invasore: e per pagare l’altissimo prezzo si era paradossalmente financo spogliata dell’acquasantino d’argento, sacra memoria del Santo di casa. Generosa e ospitale, la dimora torinese dei Benso aveva in quegli anni accolto alcuni parenti de Sales e, in momenti diversi, aveva schiuso le porte al padre e alla madre di Filippina, sudditi sardi, che, impropriamente iscritti nelle liste degli emigrati, avevano subito la confisca dei castelli di Duingt e di Thorens, al cui ricupero la nobildonna aveva poi lungamente impegnato tutta se stessa. Come del resto tutta se stessa aveva impegnato nel gioco difficile degli equilibri domestici, allorché, con somma prudenza e indubitabile onestà, aveva patrocinato le nozze della bella ed esuberante Victoire, figlia maggiore del facoltoso conte ginevrino Jean de Sellon, con il conte Blancardi Roero de La Turbie, preferendo per il figlio Michele la dolce Adèle, modesta e colta sorella minore di lei. Se il matrimonio dell’una era miseramente fallito a motivo dell’imprevedibile brutalità dello sposo, quello dell’altra s’era rivelato promettente e solido, sicché a poco più di quarant’anni la marchesa aveva consegnato le redini della casa alla nuora, modello di equilibrio e finezza, sicura di suggellare con quel gesto, e per sempre, il capitolo, a parer suo, più laborioso e intricato della propria vicenda personale. La storia, che intanto compiva il suo corso, l’avrebbe tosto smentita, aprendo per lei un capitolo nuovo e insidioso. La battaglia di Marengo, conclusa con una strepitosa vittoria, il 14 giugno 1800 aveva sancito l’inarrestabile ascesa del Bonaparte; la geografia politica era conseguentemente mutata: il Piemonte era divenuto 27a divisione militare francese; e di lì a poco, al vertice dell’ex regno sardo, definitivamente annesso alla Francia, era stato posto il generale Menou, amico del La Turbie dei tempi migliori. Per il tramite del potente comandante francese, fedele interprete delle ambizioni napoleoniche, il processo di ralliement dei Cavour al nuovo ordine di cose aveva subito una accelerazione positiva. E Filippina, più che mai determinata a ottenere la cancellazione dalla lista degli emigrati di tutta la famiglia de Sales, la restituzione dei beni confiscati e non venduti, il ritorno degli esiliati in Savoia e la riacquisizione dell’amato Thorens, e altresì speranzosa di aumentare le risorse familiari, liberarsi dai creditori, addirittura sdebitarsi con il figlio, e mettere se stessa a proprio agio, s’era trovata impigliata nella rete imperiale: non senza la complicità di nuovi e autorevolissimi amici, consiglieri fidati del trono. Avendo nominato il cognato Camillo Borghese governatore del Piemonte, Napoleone, all’apogeo della sua potenza, aveva voluto stabilire nella brumosa Torino una splendida corte per l’adorata sorella Paolina; e, saggiamente, aveva opposto ai capricci di lei, qual mentore amabile, contegnoso e puro, una dama d’onore «d’antica nobiltà, di preclare virtù, di senno e di tatto squisito». La scelta era caduta sulla ormai matura marchesa di Cavour, che suo malgrado aveva dovuto obbedire. A Filippina, che sopportava la vedovanza recente (1807) grazie al sorriso del nipotino Gustavo (n. 24 giugno 1806), il delicatissimo ruolo di dama d’onore aveva tosto imposto un penoso andirivieni durato 6 lunghi anni, da Torino a Parigi, a Nizza, a Aix-les-Bains e di nuovo a Parigi, e ovunque la principessa intendesse esibire senza pudore la propria vocazione ai fasti della mondanità. Le frenetiche giornate di quel periodo sono magistralmente narrate da Carlo Pischedda nelle menzionate pagine, intessute di efficaci testimonianze epistolari di prima mano difficilmente riassumibili in questa sede: dunque a esse rimando, non senza evidenziare quanto sia stato arduo il compito della «belle fermière de Santena» assurta al rango di dama d’onore, e dunque ammessa al cospetto dell’astro imperiale: che, soffocata nelle spire dell’irragionevolezza della giovane Paolina, trascinata negli intrichi dei ricatti di lei, si sentiva perduta nei labirinti della nostalgia di casa. E, ciononostante, per il bene di tutti, rimaneva saldamente ancorata al posto che la storia le aveva assegnato. Caduto l’impero, consapevole del dovere compiuto e orgogliosa della propria integrità morale, con «la consolation d’avoir sçu honorer le malheur», Filippina era infine tornata in famiglia, ove, in punta di piedi, aveva ripreso le funzioni di fulcro, a conforto e sostegno dei numerosi parenti: soprattutto del figlio Michele, come lei laborioso e concreto, della nuora Adèle, «chérie fille de [son] coeur», e dei nipoti, il riflessivo e studioso Gustavo, e l’esuberante e pigro Camillo. Quest’ultimo aveva instaurato con la nonna un’intesa perfetta: la buona Filippina, depositaria unica di piccole confidenze - «je t’en prie de ne rien en dire à personne, parce que c’est un secret» (Epist., I, n. 15, p. 11) – amava teneramente quel fanciullo ribelle e ne seguiva i progressi con cuore di madre: ed egli, avviato precocemente alla carriera delle armi, la ripagava cercando di assumere un’«air plus modeste», promettendo inoltre «contenance calme en classe; bonne résolution d’être un jenne homme sensé, solide et aimable» (I, n. 35, p. 26). Le lettere di Camillo a Marina – appellativo a quel tempo riservato alla nonna paterna che per consuetudine teneva i figli dei figli a battesimo – sono intessute di nostalgia, di confidenza, di curiosità, financo di spregiudicata ironia: tra le righe passano leggere le informazioni più varie, che rivelano gli interessi culturali della donna negli ambiti della storia (I, n. 50, pp. 41-42), della matematica (I, n. 49, pp. 40-41), dell’attualità (I, n. 63, 74, pp. 58-60, 80), dell’agricoltura (I, n. 10, 86, pp. 11, 101-102), della botanica, dell’arredamento e dell’arte. Nonostante le lacune prodotte dal tempo, il dialogo appare alimentato da entrambi: della nonna si percepisce un’attenzione costante e gagliarda, una buona disponibilità all’ascolto, e una propensione non superficiale o scontata all’indulgenza; del nipote si scoprono somiglianze, frammenti condivisi di vita, e passioni comuni. Tra queste comuni passioni, il rifugio di Santena, che Filippina, giovane sposa subitamente innamorata del luogo, aveva sottratto al degrado, ampliato e abbellito e arricchito con sapienza e buon gusto. A Santena nonna e nipote si sentivano a casa; Santena era per entrambi il ricetto dolce e promettente, ove tutto era concesso: la meditazione, la lettura e lo svago; la confidenza, la conversazione e la musica; la preghiera e la festa. Sin dall’infanzia, e «bien souvent», il pensiero di Camillo andava «à la bonne Marine» (I, n. 23, p. 17), e alle sue occupazioni, dai bachi da seta, ch’ella allevava con zelo, ai fiori, ch’ella amorevolmente curava (I, nn. 10 e 86, pp. 7; 101-102), alla bellezza e ai piaceri della fruttuosa campagna: «Santena doit être bien beau – scriveva il giovane, relegato, quale ufficiale del genio, in un luglio ventoso, nella solitudine di Lesseillon – les récoltes donnent toujours à la campagne un air animé qui fait plaisir à voir. Surtout si le laboureur a recuilli en paix le fruit de ses travaux» (I, n. 74, pp. 80-81). A sua volta Filippina, nelle rare missive superstiti indirizzate a Camillo, raccontava di sè e della nuora amatissima, de «son Santena qu’elle aime tant» e di «tous les habitans dont elle est si aimée», e aspettava impaziente l’arrivo del nipote, già affaccendato in nuove incombenze: «La vielle mère du cher Lyon [dal segno zodiacale cui apparteneva Camillo] l’embrasse tendrement, elle se soigne pour avoir encore le plaisir de le revoir et le prie de se bien soigner pour elle» (I, nn. 253, p. 455). Con l’avanzare degli anni, gli acciacchi aumentavano e si susseguivano i lutti, e il cerchio degli affetti si stringeva attorno ai superstiti, distratti dal loro lavoro e dalle loro passioni. Ma l’ormai anziana Filippina, angelo tutelare di casa Cavour, non veniva meno ai suoi compiti. Rivelatrice dell’attenzione della donna nei confronti di Camillo una lettera inedita ch’ella scrisse il 16 febbraio 1835, ritrovata nell’archivio di Santena dalla brava Carla Ceresa, che desidero ringraziare pubblicamente per le preziose segnalazioni e per l’ottimo lavoro che svolge. In quella lettera l’ultrasettantenne Filippina, la vigilia della partenza del nipote per Parigi in compagnia dell’amico Pietro di Santa Rosa, si congratulava per il successo dell’ Extrait del rapporto inglese intorno alla legislazione dei poveri, che il giovane aveva redatto su incarico del padre, onde procurare a Sir Foster, ministro d’Inghilterra a Torino, precisi ragguagli circa gli istituti di beneficenza del regno. Come attestava la vegliarda, il corposo lavoro - formalmente riveduto dall’abate Frézet, dalla madre e dal fratello di Camillo e poi deliberatamente stampato senza il nome dell’autore presso l’Imprimerie Fodratti di Torino - aveva suscitato grande interesse nella cerchia degli amici autorevoli della famiglia, quali i Saluzzo, i Balbo, i San Giorgio, i Masino. Filippina, lieta e orgogliosa di tanto consenso, lodava dunque la sensibilità e l’acume del venticinquenne nipote, il quale aveva saputo cogliere gli aspetti dolorosi di un problema cruciale che la toccava profondamente, e lo incoraggiava a proseguirne lo studio. L’ elogio di Filippina, e il suo interesse, rimasto sinora nell’ombra, per quel lavoro sul pauperismo – cui seguirono ulteriori riflessioni maturate durante un proficuo soggiorno del giovane in Inghilterra - conferma non tanto la «concordanza» di idee tra nonna e nipote, quanto la disponibilità di lei alla comprensione del pensiero, delle attitudini e delle speranze di lui. Disponibilità che la pronipote, nel medaglione più volte citato, non aveva mancato di cogliere: «Quando venne il 48 – ella scriveva – la marchesa Filippina, che aveva visto cadere l’antica monarchia dei Savoia [...], la Repubblica Cisalpina, l’Impero Napoleonico, visto il ritorno dalla Sardegna di Vittorio Emanuele I, il regno di Carlo Felice, l’assunzione al trono della Casa di Savoia-Carignano nella persona di Carlo Alberto [...], accolse senza rimpianto le Riforme, lo Statuto». Sicché Camillo «con la storica fregatina di mano» l’apostrofava: «" Marina [...] nous nous entendons à merveille, vous et moi, car vous avez toujours été un peu Jacobine "». Appellativo che, come è stato opportunamente osservato, non dava certo adito a una concessione della nobildonna ai principi del liberalismo, bensì alla sua «apertura mentale», alla sua «capacità di comprensione dei tempi nuovi», alla «disponibilità» appunto ch’ «ella sola, prendendo le distanze dall’estremismo conservatore degli altri familiari», mostrava nell’accettare il cambiamento con «quel pizzico» di indomita spregiudicatezza giovanile che non l’aveva abbandonata neppure nei momenti peggiori. Come non rimpiangere dunque colei che, fattasi madre di nipoti e pronipoti orfani, ottantaquattrenne aveva saputo dimenticare il male fisico e il peso del tempo trascorso, per riprendere il governo della casa di Torino e dell’amatissima dimora di Santena? La sacra terra eletta a nuova piccola patria, ove di lì a tre anni le care spoglie di Filippina de Sales avrebbero trovato riposo, accanto a quelle dei tanti parenti perduti e in attesa dei rari superstiti, nell’ormai muto cenacolo della famiglia Cavour. Santena, 10 ottobre 2009 Rosanna Roccia