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 2010  marzo 18 Giovedì calendario

LA VOLPE DI FASTWEB

(vedi anche frammento 201644) -

La casa a Londra nel quartiere esclusivo di Mayfair. Gli uffici a due passi dal Tamigi, in St James street. La vecchia e lussuosa residenza di via Borgonuovo a Milano ceduta ad una società con base nel paradiso fiscale del Lussemburgo. Due holding nel Granducato e un’altra in Irlanda. I viaggi di lavoro dalla Cina al Sudamerica. E per le vacanze uno yacht da favola. Il supermanager Silvio Scaglia veleggiava al largo, lontano dall’Italia, ormai da anni. Forte di un patrimonio personale valutato per difetto intorno al miliardo di euro e per questo arruolato nella ristretta schiera dei nababbi da jet set, l’inventore di Fastweb si muoveva da tempo come un businessman globale. Sempre a caccia di occasioni d’investimento da una parte all’altra del mondo. Volava alto, altissimo, questo ingegnere elettronico poco più che cinquantenne (classe 1958) con il pallino del Web e della finanza. Più la seconda del primo, a dire il vero. Volava alto fino a quando, il 25 febbraio scorso, si è ritrovato in una cella del carcere romano di Rebibbia. Colpito dall’accusa infamante di essersi prestato ad organizzare una gigantesca frode fiscale, avallando, come capo di Fastweb tra il 2003 e il 2006, l’emissione di fatture false per centinaia di milioni di euro. E così, per un curioso e tragico corto circuito del destino, Scaglia ha finito per condividere pagine e pagine dei giornali con un’assortita compagnia di loschi figuri (er somaro, er giraffa, er puzzone) capitanata da Gennaro Mokbel, fascista in odore di ’ndrangheta.

Il detenuto eccellente si difende attaccando. "Chiarisco tutto e me ne vado in fretta da qui", manda a dire tramite i suoi avvocati. Una reazione in linea con il suo carattere spigoloso, incline a tagliar corto, a parlare con i numeri. Ma non è solo questo. Scaglia sa bene che nelle 1.600 pagine dell’ordinanza cautelare che lo ha portato in carcere, come pure nelle migliaia di documenti allegati, non c’è una prova definitiva contro di lui. Nessuna intercettazione telefonica compromettente. Nessun documento che lo associ alla banda dei truffatori. Tantomeno versamenti di denaro su conti bancari a lui riconducibili. Insomma, manca la pistola fumante. Alla fine le accuse nei confronti di Scaglia restano appese al gancio di un solo argomento. Lui era il fondatore, il gestore, l’azionista principale di Fastweb. Quindi non può essergli sfuggito un business che, secondo i calcoli degli investigatori, sarebbe riuscito a migliorare in modo sostanziale le performance di bilancio del gruppo telefonico. Insomma, Scaglia era il capo e quindi non poteva non sapere. Per puntellare questa ipotesi le carte dell’inchiesta elencano una serie di indizi: e-mail, testimonianze di manager dell’azienda, verbali di riunioni, che dovrebbero dimostrare quantomeno la consapevolezza della frode da parte del numero uno.

Queste circostanze reggono la trama di un’inchiesta giudiziaria eccezionalmente lunga perfino per gli standard italiani. I primi accertamenti su attività sospette di Fastweb risalgono addirittura al 2004. Scaglia sa di essere indagato dal marzo 2007. E la richiesta d’arresto formulata dai pm, datata agosto 2009, viene eseguita solo il 23 febbraio scorso. La sorte di Scaglia, dello Scaglia imprenditore e manager, ma forse anche il suo destino giudiziario, si è decisa però in un periodo di tempo molto più breve. Sei mesi soltanto tra l’autunno 2006 e l’inverno dell’anno successivo. I mesi in cui il presidente di Fastweb maturò la decisione di abbandonare la barca, di vendere la sua creatura agli svizzeri di Swisscom. Sei mesi scanditi da voci, sospetti, manovre di Borsa. La cessione delle azioni fruttò al venditore un profitto da record: in totale circa 800 milioni di euro via Lussemburgo e quindi sostanzialmente esentasse. Ma Scaglia, che prese il volo verso la sua nuova vita da finanziere globetrotter, lasciò dietro di sé una lunga scia di dubbi sui tempi, i modi e le reali motivazioni della sua scelta. E allora, per capire meglio gli avvenimenti di questi giorni, forse conviene anche raccontare i retroscena di quelle settimane decisive di tre anni fa.

Per cominciare va detto che nonostante gli studi da ingegnere e la fama di capoazienda attento agli aspetti industriali del business, l’ex capo di Fastweb è tutt’altro che un outsider rispetto ai grandi giochi del capitalismo nazionale. Scaglia proviene dall’élite dei cosiddetti McKinsey boys. Ovvero i manager cresciuti alla scuola della grande società di consulenza internazionale e destinati a occupare posti chiave nelle maggiori società italiane. Ne fa parte, per esempio, Alessandro Profumo di Unicredit, la banca che appoggerà tutte le principali operazioni borsistiche targate Fastweb. E nell’autunno del 1998, quando partono i preparativi per l’Opa del secolo su Telecom Italia, è proprio Scaglia, all’epoca a capo della Omnitel (i telefonini del gruppo Olivetti), a giocare un ruolo da advisor dietro le quinte per Roberto Colaninno insieme al finanziere e raider di Borsa Francesco Micheli. Quest’ultimo, di lì a pochi mesi, tirerà le fila dello sbarco in Borsa di e.Biscom, poi ribattezzata Fastweb, l’azienda inventata da Scaglia con l’obiettivo dichiarato di portare la rete telefonica in fibra ottica nelle case di tutti gli italiani. Lo sbarco sul listino venne realizzato, con tempismo eccezionale, nel marzo del 2000, proprio al culmine della bolla speculativa della cosiddetta New Economy. Lo Scaglia finanziere mette a segno il suo capolavoro quasi sette anni più tardi, quando ingrana la retromarcia e lascia la sua azienda. Una vendita col botto, realizzata dopo mesi di rialzo della quotazione borsistica di Fastweb (più 60 per cento in cinque mesi) e a prezzi mai più neppure lontanamente avvicinati dal titolo nei tre anni successivi. Ma il fatto che finì per sollevare proteste e sospetti da parte degli investitori era un altro. In sostanza in quei sei mesi tra settembre 2006 e marzo 2007 i vertici del gruppo telefonico si lanciarono in dichiarazioni pubbliche spesso smentite alla prova dei fatti nel giro di breve tempo. "Abbiamo un azionariato molto stabile", assicurava l’amministratore delegato Stefano Parisi in un’intervista dell’11 ottobre 2006. E anche Scaglia tornò poco dopo ad affermare che non aveva trattative in corso per la vendita del suo pacchetto del 25 per cento. Contrordine: a gennaio del 2007, giorno 16, è il presidente in persona a comunicare al mercato di aver girato a Unicredit una quota del 6,25 per cento. Prezzo: 225 milioni incassati dalla Sms finance, la sua holding personale in Lussemburgo. un primo passo verso la cessione totale? Macché, garantiscono quelli di Fastweb. Nell’accordo con Unicredit è compreso l’impegno di Scaglia a mantenere la proprietà della quota rimanente (il 18,75 per cento) per almeno 12 mesi. Così recita un comunicato diffuso in quei giorni. Chiaro, chiarissimo. Se non fosse che a marzo scende in campo Swisscom che lancia un’offerta pubblica d’acquisto in Borsa a cui anche Scaglia aderisce prontamente cedendo le sue azioni. Il prezzo dell’Opa viene fissato a 47 euro per azione. A settembre del 2006, quando partì l’eccezionale corsa al rialzo del titolo, la quotazione superava di poco i 30 euro.

A questo punto, con il senno di poi, riesce difficile non notare che quella girandola di annunci e smentite prende velocità proprio mentre l’inchiesta giudiziaria della Procura di Roma sulla frode fiscale entra nel vivo. A novembre 2006 la sede di Fastweb viene per la prima volta perquisita dalla Guardia di Finanza a caccia di documenti sui rapporti del gruppo con le società ’cartiere’ gestite dalla banda di truffatori. Ed in quei giorni partono anche gli interrogatori dei manager dell’azienda telefonica direttamente coinvolti nelle operazioni sospette. Due di loro, Giuseppe Crudele e Bruno Zito, pagati da Mokbel e compagni su conti a Hong Kong, sono stati arrestati nella retata (56 mandati di cattura) dei giorni scorsi. Non è finita, perché il 23 gennaio 2007, cioè solo una settimana dopo che Scaglia ha girato a Unicredit il primo pacchetto del 6,25 per cento, l’inchiesta giudiziaria diventa addirittura di dominio pubblico. Un articolo del quotidiano ’la Repubblica’ rivela che i pm hanno aperto un’indagine su Fastweb per sospetta evasione fiscale. "Ipotesi destituite di fondamento", tuona un comunicato della società, che assicura collaborazione agli investigatori. Ma mentre Fastweb collabora, Scaglia prepara le valigie. A dargli una mano c’è il banchiere di Deutsche Bank Massimo Armanini. La stessa banca tedesca diventa consulente anche dell’azienda telefonica per valutare la congruità del prezzo d’Opa. Tutto bene, si proceda, è il verdetto dell’advisor. Il 12 marzo Scaglia annuncia che venderà il suo pacchetto a Swisscom. Un tempismo eccezionale. Già, perché, coincidenza delle coincidenze, esattamente 24 ore dopo lo stesso Scaglia viene interrogato per la prima volta dai pm. Ma ormai è fatta. La vendita è garantita al prezzo generoso offerto dagli svizzeri. E soprattutto l’incasso è al riparo da eventuali nuovi sconquassi giudiziari che comunque, come abbiamo visto, non arriveranno prima di tre anni.

E Armanini? Ha lasciato Deutsche Bank, ma ha trovato in fretta un nuovo lavoro a Lugano: gestisce il patrimonio personale dell’ex capo di Fastweb. Sarebbe un happy end, se non fosse che nel frattempo l’ex banchiere, a suo tempo molto vicino anche a Calisto Tanzi, ha patteggiato una condanna di un anno e nove mesi per la bancarotta Parmalat.