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 2010  marzo 12 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Luca Ricolfi, Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e Associati 2010, pp

Notizie tratte da: Luca Ricolfi, Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e Associati 2010, pp. 271, 23,50 euro.

(Pezzo corto per Vanity)

TRASFERIMENTI Ogni anno vengono trasferiti dalle regioni del Nord alle regioni del Sud e al Lazio 50 miliardi di euro (pari a circa due o tre Finanziarie). 24,9 li cede la Lombardia, 8,8 il Veneto, 8 l’Emilia-Romagna. Il resto tocca a Piemonte, Toscana e Marche.

DIVARI 1 Fra gli storici e gli economisti prevale l’idea che nel 1861 il divario Nord Sud fosse compreso fra il 10 e il 25%, contro il 40% circa degli ultimi cinquant’anni. Il periodo peggiore della storia del Mezzogiorno va dal 1884 al 1951. I soli periodi di riavvicinamento con il Centro-Nord sono il 1952-1975 e il 1998-2004.

DIVARI 2 Esistono due tipi di divario, uno relativo a quanto un territorio produce, l’altro relativo a quanto consuma. Il prodotto interno lordo del settore market (quello che si misura con il mercato, quindi escludendo la Pubblica amministrazione) è pari a 30mila euro in Lombardia e a 13mila euro in Calabria, Campania e Sicilia. Con un divario Sud Centro-Nord di 53,2 a 100. Se andiamo a considerare il divario nei consumi si scende a 89,1 contro 100.

LIBERTA’ «A volte si ha l’impressione che la società meridionale abbia trovato nell’accesso ai consumi l’unica forma possibile di libertà in una realtà oppressa dalla politica e dalla criminalità. Anzi, l’oppressione della politica è tollerata proprio perché consente di accedere, per vie contorte, alla società dei consumi» (Isaia Sales).

LAVORARE Il potere di acquisto effettivo di un’ora di lavoro è di 23,6 euro al Nord e di 30 euro al Sud (questo non significa che un operaio o un impiegato del Sud è pagato più di uno del Nord, ma che i redditi totali disponibili al Sud - incluse pensioni, sussidi, stipendi pubblici, rendite, profitti -, se commisurati alle ore complessive effettivamente lavorate).

TENORE Il tenore di vita è dato da a) i consumi privati in termini reali; b) i consumi pubblici effettivi; c) l’ammontare di tempo libero. Il Sud ha un potere di acquisto pro capite inferiore a quello del Nord (-11,8%), consumi pubblici peggiori (-29,6%), un ammontare di tempo libero addizionale che è quasi cinque volte maggiore. Arrotondando, si può dire che il cittadino medio del Sud ha 2.000 euro all’anno in meno di consumi privati, 1.000 euro in meno di consumi pubblici, 7.000 euro in più sotto forma di tempo libero (pagato 6,3 euro all’ora). Sommando tutti e tre gli addendi, il tenore di vita del cittadino del Nord vale 26.714 euro, quello del Sud 30.138, circa il 13% in più.

SPRECO Il tasso di spreco della Pubblica amministrazione è prossimo allo zero in Lombardia (2,8%), molto basso (sotto il 15%) in tutto il Nord e sale regolarmente scendendo verso Sud fino a toccare il 50% in Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna.

SERVIZI Alla Pubblica amministrazione, per i servizi offerti, il cittadino del Nord versa mediamente 371 euro l’anno, quello del Sud 187.

PARASSITISMO La Lombardia ha un tasso di parassitismo (la spesa improduttiva rispetto al reddito che un territorio genera) inferiore al 15%, la Sicilia sfiora il 45%. Su venti regioni sei hanno un tasso inferiore a quello della media nazionale (23,6%). Oltre alla Lombardia sono il Veneto, l’Emilia-Romagna, il Piemonte, la Toscana e le Marche. All’altro estremo, oltre alla Sicilia, ci sono la Calabria, anch’essa con un tasso superiore al 40%, poi la Sardegna, il Molise, la Basilicata e la Campania.

EVASIONE L’evasione totale è data da tre addendi: 1) l’evasione contributiva dei lavoratori indipendenti; 2) l’evasione contributiva dei lavoratori dipendenti; 3) l’evasione fiscale complessiva. La somma di queste tre componenti, nel 2006, feceva 128,1 miliardi di euro, pari al 10% del Pil.

TASSE L’Italia ha una pressione fiscale ufficiale del 43% (era del 31,3% nel 1980). Si calcola rapportando l’ammontare delle tasse (imposte e contributi) al valore del Pil, ma poiché l’Istat nel Pil include anche l’economia sommersa, e l’economia sommersa non paga tasse, quel 43% è una sorta di media fra due pressioni fiscali diverse: la pressione fiscale sull’economia sommersa, che è zero, e quella sull’economia emersa, che è molto maggiore di quella ufficiale, 10-11 punti in più.

CONTRIBUENTE Il contribuente lombardo per ogni 100 di tasse pagate ne occulta 12,5. Il contribuente calabrese ne occulta 85. L’Emilia-Romagna e il Veneto 19. Poco più in là, ma sempre al di sotto della media italiana (26,4), Friuli, Lazio, Piemonte e Trentino. La regione meridionale più virtuosa è l’Abruzzo (30,5). In coda Puglia (52), Campania (55,3), Sicilia (63,4) e, appunto, Calabria.

GALLINA «La spoliazione non incontra spesso una resistenza molto efficace da parte degli spogliati; ciò che finisce talvolta per arrestarla è la distruzione di ricchezza che ne consegue e che può portare la rovina del paese. La storia ci insegna che più di una volta la spoliazione ha finito con l’uccidere la gallina dalle uova d’oro» (Vilfredo Pareto).

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(Pezzo lungo)

«La spoliazione non incontra spesso una resistenza molto efficace da parte degli spogliati; ciò che finisce talvolta per arrestarla è la distruzione di ricchezza che ne consegue e che può portare la rovina del paese. La storia ci insegna che più di una volta la spoliazione ha finito con l’uccidere la gallina dalle uova d’oro» (Vilfredo Pareto).

«Di sinistra: una parola che significa per me solo questo: esistono i deboli, ma insieme ai deboli esistono meccanismi sociali sistematici che tendono a lasciarli tali. Con l’ovvia implicazione: finchè esisteranno questi meccanismi, ci sarà qualcosa da fare per chi è di sinistra». A ciò aggiunge «una sorta di venerazione per il principio di responsabilità individuale, l’insofferenza per coloro che vivono alle spalle degli altri».

In Italia il federalismo fiscale sta per nascere senza una base di dati adeguata ed efficace e senza che le statistiche ufficiali riescano a fornirne una a livello regionale. Il sospetto è che il nuovo sistema federalista non riesca a instaurare una maggiore giustizia distributiva tra le regioni, ma finisca per far lievitare il deficit dello Stato. Allora Ricolfi vorrebbe recuperare la distinzione tra settore produttivo e settore improduttivo, tipica dell’economia classica, da Ricardo a Marx, innestandola in una generale visione liberista alla von Hayek, di cui si rivendicano le convinzioni anticonservatrici.

Con queste premesse Ricolfi costruisce una «contabilità nazionale liberale», uno schema alternativo per descrive i grandi flussi di risorse all’interno di un paese. R. dice che per descrivere adeguatamente un territorio sia necessario tenere in considerazione quattro fondamentali numeretti che alla contabilità nazionale ufficiale mancano: il grado di dipendenza di un territorio dalla spesa pubblica corrente, cioè «il parassitismo netto»; il grado di esosità del fisco, «il reddito comandato»; la dissipazione di risorse pubbliche, «lo spreco»; confrontare i consumi effettivi di territori con differenti livelli di prezzi, «il potere di acquisto locale». Tutto questo l’ha chiamato: «contabilità nazionale liberale».

Nel 2006 (dati più recenti) il prodotto interno lordo per abitante del settore market (ovvero l’insieme dei settori produttivi eccetto la pubblica amministrazione) era pari a 30mila euro in Lombardia e a 13mila euro in Calabria, Campania e Sicilia. Tutte le regioni settentrionali producono più di 20mila euro, nessuna regione meridionale produce più di 20mila euro. Il divario del Sud con il Centro-Nord è di 53,2 a 100.

Il peso della Pubblica amministrazione (rapporto tra valore aggiunto della Pa e il Pil market) è il 27,2% in Sicilia e il 9,9% in Lombardia.

Nella contabilità nazionale ufficiale si considera produttiva anche la Pubblica amministrazione e il suo prodotto viene incluso nel Pil per cui fatto 100 il Pil per abitante del Centro-Nord quello del Sud è pari a 58,2.

Il prodotto della Pa stimato nella contabilità ufficiale include quattro poste: i redditi da lavoro dei dipendenti pubblici, le imposte indirette che la Pa paga a se stessa, gli ammortamenti, il risultato netto di gestione. I redditi da lavoro dipendente rappresentano quasi l’85% del prodotto.

Per sapere quanto produce la Pa basta sottrarre al valore dei consumi pubblici nominali (264,2 miliardi) la quota che non si traduce in servizi ma solo in sprechi, pari al 26,1%, quota che vale 69 miliardi di euro e che porta a 195 miliardi il valore effettivo dell’output dei servizi pubblici.

«I conti pubblici italiani sono entrati in grave sofferenza all’inizio degli anni Settanta, quando la Pubblica amministrazione non è stata più in grado, attraverso le tasse, di fronteggiare le domande di assistenza e di protezione provenienti dalla società. Di fronte a questo squilibrio il dilemma sembrava allora quello fra aumentare le tasse e diminuire la spesa pubblica. La politica italiana (e non solo essa) decise invece che si poteva aumentare entrambe, tasse e spesa, e anzi si poteva far crescere la seconda ancor più delle prime. Di qui deficit pubblici sempre più ampi che nel corso di una ventina d’anni (1972-1992), porteranno il debito al 120% del Pil. In breve, la politica decise di aumentare il carico fiscale sul settore market dell’economia, ma non per riportare in equilibrio i conti pubblici, bensì per ampliare la sfera di influenza delle pubblica amministrazione, ossia del ceto politico-burocratico che si interpone fra lo Stato e il mercato. Più acquisti, più stipendi pubblici, più pensioni, più sussidi, più rendite finanziarie, (titoli di Stato): in breve, più parassitismo. Questo meccanismo ha permesso agli italiani di vivere per vent’anni al di sopra dei propri mezzi, ma alla fine ha presentato il conto: una prima volta nel 1992, con il crollo della lira e una grave recessione, una seconda volta nell’ultimo decennio con il progressivo arresto delle crescita».

«Dalla fine degli anni Novanta la produttività ha smesso di crescere, l’occupazione aumenta solo nella sua componente straniera, i consumi reali pro capite sono sostanzialmente fermi e – forse il dato più significativo – la quota di famiglie risparmiatrici ha subito una contrazione drammatica: ancora nel 1998 il 34,9% delle famiglie italiane riusciva a mettere da parte qualcosa alla fine del mese, oggi la percentuale è crollata al 18,1%».

Un modo semplice per studiare il tasso di parassitismo di un territorio è quello di calcolare, in ogni regione, il peso della spesa pubblica veramente discrezionale, naturalmente al netto degli importi che i cittadini sono tenuti a versare alla Pa (ad esempio i ticket). A questo scopo basta sottrarre alla spesa totale sia le tre poste in qualche modo obbligate, ossia difesa, previdenza e interessi, sia i (modesti) proventi delle «vendite» che la pubblica amministrazione riesce a effettuare al pubblico e dividere quello che viene per il Pil market. Un basso valore indica che il territorio è parsimonioso perché le sue spese improduttive (quelle che non si misurano con il mercato) sono modeste rispetto al reddito che quel territorio produce misurandosi con il mercato. Reciprocamente un alto valore indicherà che un territorio spende improduttivamente troppo rispetto al reddito che è in grado di generare.

La Lombardia ha un tasso di parassitismo inferiore al 15%, la Sicilia sfiora il 45%. Su 20 regioni, solo 6, tutte al Centro-Nord, hanno un tasso di parassitismo inferiore a quello della media nazionale (23.6%). Oltre alla Lombardia sono il Veneto, l’Emilia-Romagna, il Piemonte, la Toscana e le Marche. All’altro estremo della graduatoria, oltre alla Sicilia ci sono la Calabria, anch’essa con un tasso parassitario superiore al 40%, e poi la Sardegna, il Molise, la Basilicata, la Campania.

Il peso del parassitismo grava in massima parte su tre sole regioni che per le dimensioni delle loro economie e per la capacità di contenere la spesa improduttiva reggono i disavanzi di tutte le altre. Si tratta della Lombardia che cede 24,9 miliardi all’anno, il Veneto, con 8,8 miliardi, dell’Emilia-Romagna, con 8 miliardi. In tutto fa 41,7 miliardi all’anno, pari a circa l’85% delle risorse che ogni anno passano dalle regioni parsimoniose verso tutte le altre. Aggiungendo le risorse trasferite dalle altre tre regioni virtuose – Piemonte, Toscana, Marche – si arriva a un totale di oltre 49,5 miliardi, ossia l’equivalente di due o tre finanziarie.

Di questi 50 miliardi ceduti dalle sei regioni attive, 44 miliardi di euro vengono assorbiti ogni anno dal Mezzogiorno (il 15,2% del suo Pil market).

Alla Pubblica amministrazione, per i servizi offerti, il cittadino del Nord versa mediamente 371 euro l’anno, quello del Sud 187.

Il peso dello Stato minimo (le funzioni base dello Stato) è del 9,3%. La spesa sociale nominale (il welfare) è pari al 27,8% del Pil, mentre la spesa sociale nascosta (sussidi mascherati al solo scopo di sostenere l’occupazione e il reddito, e il consenso) vale il 2,4 del Pil il che porta la spesa sociale effettiva al 30,2% del Pil. Calcolando un tasso di spreco degli altri paesi sviluppati pari a quello dell’Italia virtuosa (7,5% contro il 26,1% dell’Italia nel suo insieme), l’Italia balza al primo posto in graduatoria, a pari merito della Svezia, quale paese che ha la spesa sociale effettiva più ampia al mondo.

Il Pil calcolato dall’Istat include attività regolari e rilevate e l’economia non osservata ovvero quella sommersa, la produzione del settore informale e le inadeguatezze del sistema statistico. Dell’economia non osservata rimane fuori quella prodotta dalle attività illegali. Accanto a una stima del Pil, da una decina d’anni, l’Istat fornisce una valutazione dell’economia sommersa, ossia del peso delle attività volontariamente occultate. L’ultima stima fornita, relativa al 2006, attribuisce all’economia sommersa un peso compreso fra un minimo del 15,3% e un massimo del 16,9% del Pil, il che corrisponde a un valore aggiunto nascosto compreso fra 227 e 250 miliardi di euro.

La quota di sommerso però include anche un settore – la Pubblica amministrazione – a evasione zero, e quindi l’Istat sottostima il peso che ha il sommerso sull’economia occultabile, ovvero sul settore market. Se, come appare più logico, si calcola il sommerso sul Pil del settore market, la quota di sommerso Istat passa dal 19,1% al 21,9%. E’ questo il valore di riferimento per i confronti con i tassi di evasione, intesi come quote di basi imponibili occultate al fisco.

L’Agenzia delle entrate ha calcolato, per il 2000, un tasso di evasione dell’Irap pari al 22,9%, vicinissimo al tasso di sommerso del settore market (21,9%), e un tasso di evasione dell’Iva pari al 29,3%, sensibilmente più alto.

L’Iva rappresenta circa 1/8 delle entrate totali della Pubblica amministrazione, è possibile che altre entrate, ad esempio le imposte dirette, abbiano tassi di evasione più bassi. L’imposta più importante, ossia l’Irpef, ha tassi di evasione relativamente bassi, intorno al 13,5% (dato 2004).

«Non sembra azzardato ipotizzare che sia il tasso medio di evasione sia l’incidenza del sommerso sul settore market siano compresi tra il 20 e il 25%. Tradotto in cifre significa che il valore aggiunto sommerso si aggira intorno ai 250-300 miliardi di euro, e l’evasione (mancato gettito) è compreso fra 100 e 150 miliardi.

«Il peso del settore improduttivo dell’economia – cioè la somma di tutte le entrate e uscite correnti della Pa ovvero l’interposizione pubblica ”in uscita” – sfiora il 50% del Pil market (quello che produce e vende sul mercato), e anzi lo supera se fra le uscite della Pubblica amministrazione conteggiamo anche il ”servizio del debito”, ossia la spesa che ogni anno lo stato sostiene per pagare gli interessi sul debito pubblico accumulato».

Il tasso di spreco della Pubblica amministrazione è prossimo allo zero in Lombardia (2,8%), è molto basso (sotto il 15%) in tutto il nord (eccetto la Liguria), sale regolarmente scendendo da Nord a Sud, fino ad attestarsi intorno al 50% in Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna.

Fatta 100 la spesa pro capite della Pubblica amministrazione in consumi pubblici, il Nord spende 90,8 e il Sud 102,6, mostrando che non esiste alcun sottofinanziamento del Mezzogiorno. Mentre, in termini di output, sempre fatto 100 il valore medio nazionale, il Nord offre ai suoi cittadini 111,5, il Sud 78,4. Dunque la spesa pro capite del Sud è del 13% più alta di quella del Nord, mentre i servizi pro capite prestati sono inferiori di quasi il 30%.

Fra gli storici, ma anche fra molti economisti che si sono cimentati con il problema di ricostruire le serie del prodotto pro capite, prevale l’idea che nel 1861 il divario Nord-Sud ci fosse già, ma che la sua entità fosse compresa fra il 10 e il 25%, contro il 40% circa degli ultimi cinquant’anni. Il periodo peggiore della storia del Mezzogiorno va dal 1884 al 1951, mentre i soli periodi di riavvicinamento con il centro nord sono il 1952-1975 e il 1998.2004, per un totale di poco più di trent’anni su centocinquanta di storia unitaria.

L’evasione totale è data da tre addendi:
1. l’evasione contributiva dei lavoratori indipendente
2. l’evasione contributiva dei lavoratori dipendenti
3. l’evasione fiscale complessiva

La somma di queste tre componenti fornisce, per il 2006, la cifra di 128,1 miliardi di euro, pari al 10% del Pil.

Il contribuente lombardo per ogni 100 di tasse pagate ne occulta meno di 13 (12,5 per la precisione). All’estremo opposto il contribuente calabrese ne occulta 85, ossia sette volte di più. Ecco l’Emilia-Romagna e il Veneto con un’intensità attorno al 19%, poco più in là, ma sempre al di sotto della media italiana (26,4%), Friuli, Lazio, Piemonte e Trentino. La regione meridionale più virtuosa è l’Abruzzo (30,5%). In coda Puglia (52%), Campania (55,3%), Sicilia (63,4%) e, appunto, Calabria.

Su 100 euro prodotti nel settore market, il Nord ne trattiene legittimamente 50 e ne evade 8, in tutto riesce a trattenere 58. Il Sud ne «comanda» 57, ne evade 15, e quindi riesce a trattenerne 72. Il Nord soffre sia di un reddito comandato più basso (50 contro 57) sia di una propensione all’evasione fiscale che al Nord non raggiunge il 16%, nel Sud sfiora il 36%.

Un cittadino lombardo protesta ma alla fine versa allo Stato l’89% del dovuto, un cittadino calabrese non protesta e versa allo stato il 54% del dovuto.

Facendo la differenza tra gettito effettivo e gettito atteso (se tutte avessero la medesima propensione a evadere i contributi e le tasse), possiamo trovare l’entità del gettito differenziale di ogni territorio: se il gettito è positivo la regione è creditrice; se la differenza è negativa la regione è debitrice, ossia prospera sul gettito altrui. Ordinando le regioni da quelle che hanno l’evasione relativa più bassa (regioni creditrici) a quelle che l’hanno più alta (regioni debitrici) si hanno solo sette regioni, tutte del Centro-Nord che pagano più tasse del dovuto (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Friulia-Venezia Giulia, Lazio, Piemonte, Trentino-Alto Adige). Le altre tredici regioni pagano meno tasse del dovuto, con punte estreme di debito fiscale nelle tre regioni di mafia (Calabria, Sicilia, Campania). Ancora: l’ammontare dell’evasione in Lombardia è circa la metà dell’atteso (evasione relativa: 0,54), mentre nel Mezzogiorno è quasi il doppio dell’atteso, con una punta di oltre due volte in Calabria (evasione relativa: 2,13).

«Ma la scoperta più interessante la si fa sommando i crediti delle sette regioni virtuose o, equivalentemente, i debiti delle tredici regioni viziose (il risultato è il medesimo, ovviamente cambiando di segno). Ebbene, il totale fa 20,4 miliardi di euro, grosso modo l’importo di una Finanziaria. Da sola, la Lombardia sopporta un carico fiscale addizionale di 14,6 miliardi, più dell’alleggerimento fiscale complessivo, pari a 12,5 miliardi, che si attribuiscono le tre regioni ad alta intensità mafiosa».

La pressione fiscale corrente è passata dal 31,3% del 1980 al 42,7% del 2008, secondo la contabilità ufficiale. Ma il quadro diventa ancora più fosco se, dalla pressione fiscale ufficiale (peso di imposte e contributi rispetto al Pil), che considera tutta l’economia, compresa la Pubblica amministrazione e il sommerso, passiamo alla pressione fiscale che grava sul solo settore market, e in particolare sul segmento che paga interamente le tasse (economia emersa). Fatto 100 il Pil prodotto del settore market, nel 2006 la Pa preleva 11,4 dai redditi derivati e 37,6 dal settore market, per un totale di 49%. Ma il prelievo di 37,6 sul settore market, in realtà, è una sorta di media tra la pressione fiscale esercitata sull’economia regolare e l’economia irregolare. Se consideriamo soltanto la prima, la pressione fiscale effettiva passa dal 37,6 al 47,6%.

In questo quadro la situazione della Lombardia, appare semplicemente drammatica: la pressione fiscale sul settore market regolare è ormai del 55,2% e il basso peso dell’economia sommersa porta la pressione complessiva di fatto (economia sommersa più economia regolare) al 49%.

L’Italia ha una pressione fiscale ufficiale del 43%. La pressione fiscale si calcola rapportando l’ammontare delle tasse (imposte e contributi) al valore del Pil, ma poiché l’Istat nel Pil include anche l’economia sommersa, e l’economia sommersa non paga tasse, quel 43% è una sorta di media fra due pressioni fiscali diverse: la pressione fiscale sull’economia sommersa, che è zero, e quella sull’economia emersa, che è molto maggiore di quella ufficiale, 10-11 punti in più.

Comunque lo si calcoli il prodotto per abitante del Sud è poco più della metà di quello del Nord. A questo divario non necessariamente ne corrisponde uno dello stesso segno nella sfera del consumo.

Esistono due tipi di divario, uno relativo a quanto un territorio produce, l’altro relativo a quanto un territorio consuma. Il prodotto per abitante del Sud è poco più della metà di quello del Nord. Il divario nel consumo privato effettivo è del 10,9% (il consumo pro capite nel Nord è inferiore al 72% di quello prodotto, nel Sud è superiore all’80% , in Calabria, Sicilia, Basilicata e Campania il consumo effettivo supera il 100% di quello prodotto).

«A volte si ha l’impressione che la società meridionale abbia trovato nell’accesso ai consumi l’unica forma possibile di libertà in una realtà oppressa dalla politica e dalla criminalità. Anzi, l’oppressione della politica è tollerata proprio perché consente di accedere, per vie contorte, alla società dei consumi» (Isaia Sales).

Il tenore di vita è dato da a) i consumi privati in termini reali; b) i consumi pubblici effettivi; c) l’ammontare di tempo libero.

Il potere di acquisto che conferisce un’ora di lavoro prestata in un determinato territorio = il consumo pro capite totale (che si calcola dividendo il reddito disponibile con il il livello dei prezzi specifici di quel territorio) / l’ammontare totale di ore di lavoro erogato pro capite sul medesimo territorio.

Il potere di acquisto effettivo di un’ora di lavoro è di 23,6 euro al Nord e di 30 euro al Sud. Questo non significa che un operaio o un impiegato del Sud è pagato più di uno del Nord, ma che i redditi totali disponibili al Sud - incluse pensioni, sussudi, stipendi pubblici, rendite, profitti - sono circa il 28% più alti di quelli del Nord se commisurati alle ore complessive effettivamente lavorate.

Il Sud ha un potere di acquisto pro capite inferiore a quello del Nord (-11,8%), consumi pubblici peggiori (-29,6%), un ammontare di tempo libero addizionale che è quasi cinque volte maggiore. Arrotondando, si può dire che il cittadino medio del Sud ha 2.000 euro all’anno in meno di consumi privati, 1.000 euro meno in meno di consumi pubblici, 7.000 euro in più sotto forma di tempo libero (6,3 euro all’ora). Sommando tutti e tre gli addendi, il tenore di vit del cittadino del Nord vale 26.714 euro, quello del Sud 30.138, circa il 13% in più.

La «spoliazione» delle regioni settentrionali, secondo Ricolfi, è iniqua non solo per ragioni etiche, ma perché «fiacca la capacità del Nord di produrre ricchezza, ossia precisamente la materia prima su cui poggia la redistribuzione a favore delle regioni deboli».

Previsioni. La prima: quella di un aumento dell’intervento pubblico. Tale versione «continuista» del federalismo si fonda sulla capacità, da parte del ceto politico dei territori meno virtuosi, di approfittare dell’occasione, aumentando le funzioni delegate all’autorità pubblica regionale. Una soluzione che converrebbe a tutta la classe politica, di destra e di sinistra, perché esalterebbe il suo potere sui cittadini. La seconda, quella «innovativa»: la presa di consapevolezza dell’inesorabile e irreversibile arretramento del tenore di vita di tutti gli italiani. E suggerisce che per aggirare il comprensibile rifiuto delle regioni meridionali alla rinuncia di una parte di questi aiuti: anticipare, con una oculata politica di incentivi, sia i benefici futuri dei comportamenti virtuosi, sia i costi futuri di quelli viziosi.