Varie, 12 marzo 2010
ASTENSIONISMO E STANCHEZZA. EDITORIALI E SONDAGGI
del 12 marzo 2010
Pierluigi Battista sul Corriere della Sera
Silvio Berlusconi ha un vero, grande nemico in questa campagna elettorale: lo scoramento del suo popolo. Un misto di disincanto e di rassegnazione che, se pure non si traduce nella scelta dello schieramento avversario, alimenta una fortissima tentazione astensionista. L’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer conferma che il Pdl, sebbene non se ne avvantaggino direttamente gli avversari, soffre gli effetti di una autosecessione silenziosa. La tendenza a disertare le urne, a sancire con il non-voto uno smarrimento che si traduce in disaffezione, disimpegno, delusione. il fantasma del 2006 che impone al Berlusconi grintoso di queste ultime ore la scelta dell’ennesima corsa solitaria anche a costo di lanciare accuse non provate e parlare di complotti. Uno contro tutti, come sempre da sedici anni a questa parte. Contro i nemici. Ma anche contro i suoi seguaci troppo fragili e inconcludenti, quando sono orfani di un Capo capace di rimediare ai loro guai.
L’immagine simbolo del 2006 è racchiusa nella performance che rimise un Berlusconi già sconfitto al centro della scena. Berlusconi veniva dato per politicamente spacciato, ma gli squilli di Vicenza trasmisero una travolgente corrente d’energia nel suo elettorato. Se il leader del centrodestra rimontò da una condizione di abissale svantaggio nei sondaggi e arrivò a un passo (solo una manciata di voti di differenza) da un trionfo clamoroso, fu perché a Vicenza si mostrò capace di richiamare sul campo di battaglia il suo esercito astensionista. Rese evidente una legge costante di questa nevrotica Seconda Repubblica: si vince solo se si trascina ai seggi il popolo riluttante che esprime con la minaccia dell’astensione la propria disillusione. Nel 2001 il centrosinistra perse perché molti dei suoi, scontenti e sconcertati, disertarono le urne. Nel 2006 Berlusconi sfiorò una vittoria che sembrava impossibile perché nel rush finale toccò le corde giuste per mobilitare un elettorato stanco e depresso. L’astensionismo è l’arma più micidiale in una democrazia in cui sono rari i passaggi espliciti da un campo a quello opposto. Già Albert O. Hirshmann aveva identificato nell’«uscita» del proprio elettorato, nella tentazione di ritirarsi e di abbandonare a se stessa una leadership deludente. Il nuovo protagonismo di Berlusconi ha lo scopo di tamponare l’emorragia delle «uscite», ma anche le manchevolezze di un partito impacciato e afasico.
Uno contro tutti, ancora una volta. Ma i modi con cui il Pdl (il cui più che precario stato di salute è stato diagnosticato su queste colonne da Ernesto Galli della Loggia) ha dilapidato in pochi mesi una condizione di vantaggio che sembrava inattaccabile, dimostra che nella solitudine di Berlusconi si rispecchia il vuoto del suo partito nato appena un anno fa.
Nell’«uno contro tutti» solitamente Berlusconi ritrova il suo terreno favorito, il che dovrebbe sconsigliare il Pd dall’imboccare la strada dell’ «unione sacra» antiberlusconiana in cui rischia di farsi risucchiare. Ma ritrova anche la debolezza di una «sua» classe dirigente che, lasciata a se stessa, non è in grado di rappresentare autonomamente un punto di riferimento per l’elettorato. E di fronteggiare con convinzione il fantasma dell’astensione.
Michele Serra su Repubblica
Entrare nel merito delle affermazioni di Berlusconi è diventato (da tempo) impossibile. La trama logica, prima che ideologica, sulla quale sono stati tessuti sessant´anni di storia repubblicana è stata prima logorata, poi lacerata, infine rimpiazzata da una propaganda battente, riassumibile nello stupido eppure sinistro apologo del Bene che si batte contro il Male. Tutto così avulso dalla realtà politica, economia, sociale, che oramai non è più il senso delle sue parole (quasi sempre le stesse, tra l´altro), sono il tono e il volume a dare qualche soprassalto a un´opinione pubblica che nel suo grosso è semplicemente stremata. Su questo ammasso di mediocrità e stanchezza, che assomiglia a una campagna elettorale quanto un cumulo di macerie a una casa, ieri è piovuta anche la parola "porcheria", gridata dal premier in uno dei suoi accessi consueti di vittimismo patologico. Si è fatta varco nei titoli, nei lanci di agenzia, più per la sua grevità che per il suo significato. Perché perfino i media, tra quelli tacitati e quelli ancora accesi, faticano a registrare le cose secondo una loro gravità fattuale. L´altro giorno il Csm ha espresso preoccupazione per la democrazia: una sirena d´allarme autorevolissima, e in condizioni di normale percezione delle cose una sirena lacerante. Però finita quasi ovunque nel "pastone" della logomachia politica quotidiana, un grido tra i tanti, una dichiarazione nel mucchio informe, un coccio tra i cocci.
come se in questa notte della Repubblica fosse soprattutto l´istinto a guidare il giudizio di chi ancora conta di averne uno: si avverte che il premier e i suoi fedelissimi alzano i toni perché si sentono alle corde, perché qualche sondaggio li inquadra su un terreno sdrucciolevole, perché anche alleati ventennali non rispondono ai continui appelli a fare quadrato. allora che in qualche video si nota che il sorriso fisso del Buon Venditore si scompone e si fa digrignante, torna caimano, e che la sua ira è al colmo. E non si sa se averne timore o cassare le sue minacce tra le notizie buone: urla quando teme di perdere.
Solo ieri, galvanizzato dall´applauso di una platea amica, Berlusconi, sotto l´insegna della "porcheria", ha definito "un disegno ben pensato" la miseranda storia delle sue liste (mal pensate); ha indicato per l´ennesima volta in un complotto sedizioso (dei giudici, dei fantasmatici comunisti, di chiunque non gli voglia abbastanza bene) le cause di questa sua traballante fase; ha definito "tangentopoli inventata" il letamaio di appalti pilotati, di corruzione, di lobbismo malaffaristico che ha appena incrinato l´immagine lieta e operosa del "governo del fare"; ha indicato in sé, nella sua persona, nel suo destino, il solo percorso di salvezza percorribile, nel silenzio consueto e penoso di candidati e vicecandidati che contano su se stessi quanto sul nulla, e si accodano al Capo come se sapessero che al di fuori della sua orbita il loro futuro è segnato. Perfino la Polverini, che raccolse in diversi talk-show (quando ancora c´erano i talk-show) qualche consenso per la sua misura e ragionevolezza, tanto da essere prontamente inquadrata da Feltri tra i non abbastanza domestici, ha accettato senza battere ciglio che una sua manifestazione elettorale diventasse uno show tra i peggiori del Caimano, infurentito, scomposto, vociante. (Quando tutto sarà finito, perché prima o poi dovrà pure finire, meriterà un capitolo a parte la dolorosa rassegna della pavidità, della complicità, della rassegnazione di chi, a destra, ha accettato che la Destra fosse, per quasi vent´anni, questo penoso delirio narcisistico).
In tutto questo niente è nuovo: nemmeno i colpi bassi alle istituzioni, alle quali Berlusconi si riferisce quasi sempre e quasi solo per additarle allo spregio e all´insofferenza del "popolo", quasi non fosse il capo del governo della Repubblica, ma un comiziante sedizioso. Niente è nuovo, dicevamo, ma tutto è così ossessivamente ripetuto, e a volume sempre più alto, e con toni sempre più astiosi, che ci si chiede se esista un "fine corsa", una saturazione possibile, uno sfinimento non più rimediabile, come quando un motore in fuori giri finalmente si ingrippa, e si tace. Se lo chiedono in molti, nel paese, i tanti che hanno qualche rappresentanza perché scrivono sui giornali, o partecipano alla politica, i tantissimi che in questa bufera si sentono soli, non rappresentati, non difesi: e ci stanno male, perché non è vero che sia solo il cinismo, è anche l´amarezza che può annegare lo spirito di un Paese.
Marco Castelnuovo sulla Stampa
Tra ricorsi e carte bollate, insulti e delegittimazioni varie, la voglia di votare non c’è più. Mancano solo due settimane alla fine della campagna elettorale e l’unico dato di fatto è un allarme sulla partecipazione al voto. Il timore di un aumento dell’astensionismo è sempre più marcato, e questa volta è più difficile dare la colpa al «qualunquismo».
Lo rileva anche un sondaggio di Swg per Italiafutura, il think tank fondato da Luca Cordero di Montezemolo, nata un anno fa per promuovere il dibattito civile e politico sul futuro del paese. Dai dati risulta chiaro che la crescita del malcontento, soprattutto tra i giovani, è da imputare a una crescente disaffezione verso una politica che ha perso credibilità.
Il direttore di Italiafutura, Andrea Romano, ha commentato i dati sul sito dell’associazione (www.italiafutura.it), in un articolo scritto con Carlo Calenda. La politica italiana «somiglia ogni giorno di più ad un cinepanettone», perché «il format è sempre uguale, gli attori sono gli stessi, le battute anche, ma il pubblico continua a comprare il biglietto». Per questo motivo, scrivono Calenda e Romano, «se vi fosse una crescita dell’astensione e se aumentasse il numero degli italiani decisi ad esercitare il diritto individuale al non voto, ciò potrebbe rappresentare un impulso utile a un auspicabile rinnovamento del copione» della politica. Inutile quindi «biasimare gli astenuti» delle prossime elezioni regionali, anzi.
Sarebbe una decisione «consapevole e legittima» nella quale «si potrebbe persino riconoscere, vista la qualità della crisi che abbiamo davanti, un sovrappiù di dignità civile». Altroché qualunquismo: c’è da chiedersi se «esercitare ancora una volta il diritto di voto senza alcuna convinzione, per riprendere il giorno dopo la quotidiana lamentazione sul sistema politico nel suo complesso, non rappresenti l’espressione di un qualunquismo ancora peggiore».
Lo scollamento tra (questa) classe politica e gli elettori continua ad aumentare. Nelle elezioni del 2008 si è toccato il record di astensionismo per le politiche, dal 1948 in poi: 19,5%. E l’anno scorso, più di un cittadino su tre non è andato a votare alle europee facendo della scheda bianca il partito più votato alle elezioni (quasi il 35%). Basta consultare il sondaggio Swg per capire il perché: se è vero che un elettore su tre è d’accordo con chi sostiene che la scelta di non andare a votare è legittima, la percentuale supera il cinquanta per cento (quindi più di un elettore su due) nel caso in cui l’intervistato sia un 18-34enne. Idem il giudizio sul fenomeno «astensionismo». Per la maggior parte degli intervistati è negativo, ma chi è «tendenzialmente favorevole», ha tra i diciotto e i 34 anni, classe d’età che supera di gran lunga quella degli over 55enni. Le motivazioni sono sempre le stesse: i politici hanno perso credibilità, non c’è ricambio della classe politica, meglio astenersi se non ci si riesce a identificare con un candidato o un partito.
Un film già visto, come anche Romano e Calenda sottolineano nel loro articolo. Per questo è opportuno domandarsi per un momento «cosa accadrebbe se i cittadini, rimanendo sordi al richiamo della militarizzazione di parte, deludessero per una volta le aspettative e disertassero le urne - concludono i due esponenti di Italiafutura -. Un messaggio forte, persino ultimativo, che si manifesterebbe attraverso la decisione consapevole e legittima di non esercitare un diritto di scelta la cui efficacia è stata svilita».