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 2010  marzo 12 Venerdì calendario

«RICCORDO CHE MIA FIGLIA ME LO RACCONTO: DUE TIPI L’AFFIANCARONO E LEI EBBE PAURA»

ROMA - La pedinarono, dunque. «Era un giorno di giugno, lo ricordo benissimo. Un paio di settimane prima del rapimento. Mia figlia era stata al mare con le sue amiche, le solite, quelle dell’associazione Sant’Anna (i dipendenti del Vaticano, ndr). Erano stati a Ostia, avevano fatto il bagno. Con loro c’era una mamma, la scuola era finita e noi genitori facevamo i turni per accompagnarle. Emanuela rientrando in casa mi salutò. Le chiesi: ”Siete state bene?”. ”Ci siamo divertite”, lei rispose. Dopo qualche minuto Emanuela mi raccontò un particolare al quale lì per lì non diedi valore. Dopo aver parcheggiato l’auto, in via dei Corridori, mi pare, qui a Borgo Pio, Emanuela mi raccontò che una macchina con due uomini a bordo gli era passata vicina, tanto quasi da toccarla. L’uomo accanto al conducente le sfiorò un braccio e indicandola disse all’altro: ”Eccola, è questa...”».
E lei?
«Io cercai di rassicurarla, mi sembrò uno dei tanti episodi che succedono per strada, le dissi, ”saranno stati dei ragazzacci”. E tutto finì lì».
Ha pensato subito a quei due?
«E’ la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo dell’indagato, non mi chieda il nome (Sergio Virtù, che all’epoca aveva 22 anni, ndr), insomma, il presunto autista della banda».
Dal giorno in cui Emanuela scomparse nel nulla sono passati quasi 27 anni. In un periodo così lungo i ricordi sfumano, si sovrappongono, diventano opachi. Per vederci più chiaro andrebbero restaurati, come si fa per le vecchie pellicole d’autore. E’ stupefacente, invece, come quelli di Maria Orlandi siano ancora nitidi.
Ci riceve dopo aver appreso che le indagini si sono rimesse in moto. Le foto di Emanuela sono incorniciate, poggiate insieme alle altre su un mobile antico, in corridoio, accanto ad una collezione di elefantini africani. Sulla parete di fronte è appesa una litografia del Colosseo. Dalla finestra del salone spunta tra le tende una pianta di ciclamini già in fiore. «Ecco, qui Emanuela è al mare con la sorella Natalina, erano piccole tutt’e due. Questa invece è con tutta la famiglia. Siamo sempre stati molto forti e uniti, noi». Maria ha preparato la merenda ai tre nipotini che fanno capolino dala cucina. «Chissà perché quando vengono da me mangiano tutto, mentre se stanno coi genitori fanno storie», le rivendica, fiera, da brava nonna.
Casa Orlandi è al primo piano di una palazzina d’epoca. Nel cuore del Vaticano. Una Roma segreta che neanche i turisti possono visitare. Maria è una donna semplice ma ha un suo stile: occhiali da vista, pantaloni marroni, cardigan scuro e foulard intonato che porta anche in casa. Sulla conversazione incombono allegramente i nipotini. Uno in particolare. Ha i capelli ricci e biondi e gli occhi color nocciola, come quelli di Emanuela. Dopo il ciambellone, («preparato da me», lei puntualizza) vorrebbero le patatine fritte. Richiesta respinta con un mezzo sorriso.
Le dà fastidio se le parliamo ancora di Emanuela?
«E’ quello che mi dicono tutti, anche gli amici. Si scusano come se avessero toccato il tasto sbagliato. Non è così. Mi piace parlare di lei, ricordarla. Mia figlia, non mi stanco di riperlo, per me è ancora viva. Sono molto religiosa. Lo sono sempre stata. Finché mio marito era vivo tutti i giorni, per vent’anni, abbiamo recitato insieme il Rosario passeggiando verso la Madonnina di Lourdes che c’è al centro del giardino, nella piazza. Spero che tra queste indagini e le parole di Ali Agca, che vorrei incontrare, venga fuori la verità. Io l’aspetto, aspetto Emanuela».