Marco Del Corona, Corriere della Sera 12/03/2010, 12 marzo 2010
CAMBOGIA, VISITE TURISTICHE AGLI ORRORI DEI KHMER ROSSI
Nell’aprile del 1998 la Cambogia di Pol Pot era una pianura distesa sotto di lui e una storia finita. Le truppe governative avanzavano ai piedi delle colline che marcano il confine con la Thailandia, il leader dei Khmer rossi solo nei momenti di minor lucidità poteva sperare di riprendersi la Cambogia, che aveva fatto sua il 17 aprile 1975. In meno di 4 anni aveva fatto un milione 700 mila morti. Il suo ultimo rifugio era una precaria costellazione di bunker e casette sul ciglio dello strapiombo: la Cambogia sotto, la Thailandia alle spalle, utile alla fuga. Pol Pot era ormai esautorato, processato per tradimento dai suoi Khmer rossi l’anno prima. Morto, cremato e non dimenticato il «Fratello Numero Uno», il bastione della guerriglia ultramarxista, Anlong Veng, venne catturato dai soldati del premier Hun Sen.
Dodici anni dopo il governo cambogiano ha deciso di preservare ciò che resta delle tracce dei Khmer rossi ad Anlong Veng. Saranno protetti 14 siti in un’area che dalla caduta del regime di Pol Pot (7 gennaio 1979) alla capitolazione (1998) era sempre rimasta nelle mani della guerriglia. A nord del complesso monumentale di Angkor, Anlong Veng è stata l’epicentro del potere della fase estrema dei Khmer rossi. L’elenco comprende la villa del «macellaio» Ta Mok, l’ultimo a venir catturato nel 1999, con gli affreschi, la gabbia per i prigionieri in giardino, il lago intorno. C’è un grosso macigno con l’unica scultura attribuita ai Khmer rossi, di guerriglieri in marcia. E c’è il luogo di cremazione di Pol Pot, dove i contadini accendono incensi e chiedono i numeri del lotto. I leader si erano fatti costruire casette spartane sulla collina densa di mine. Cemento, mattoni, le piastrelle che non ci sono più. I muri della casa del Fratello Numero Uno oscillano, erosi dal tropico. La residenza di Khieu Samphan non è più quasi nulla. Anni fa era già stato fatto un tentativo di rendere turisticamente appetibili le vestigia e furono piazzati vistosi cartelli azzurri con indicazioni in khmer e in inglese. Ma il vicino valico con la Thailandia era quasi impercorribile e la strada da Siem Reap, capitale turistica della Cambogia, continuava a essere quattro ore lungo un calvario di buche.
Ora il Paese si sente avviato a una sua speranzosa normalità. Phnom Penh e Siem Reap hanno begli aeroporti, Angkor si gonfia di turisti. E le strade vengono sistemate una dopo l’altra, in un piano per asfaltare a prova di stagione delle piogge 1.173 chilometri. Arrivare ad Anlong Veng è questione di un paio d’ore e lamacabra attrazione dei ruderi polpottiani potrebbe offrire un’alternativa alle meraviglie archeologiche di Angkor. La «valorizzazione turistica» è un segno dei tempi. L’orrore del genocidio si allontana nel tempo, si può provare a sterilizzarlo museificandolo. Il tribunale mezzo cambogiano emezzo internazionale per i leader khmer rossi superstiti boccheggia. Solo Duch, responsabile di torture ed esecuzioni nel carcere S-21 di Tuol Sleng, attende la sentenza. Il processo agli altri quattro arrestati – il Fratello Numero Due, l’ideologo Nuon Chea; il ministro degli Esteri, Ieng Sary; il capo di Stato e volto presentabile Khieu Samphan; la ministra Ieng Thirith’ si svolgerà il prossimo anno. Sempre che, sugli ottant’anni come sono, ci arrivino vivi. Lo scopo dell’operazione turistica è capitalizzare, guadagnarci, perché questo è il nuovo credo della Cambogia. Ma potrebbe anche servire a non dimenticare, e allora non sarebbe una cosa brutta.
Marco Del Corona