Francesco Pini, Sette del Corriere della Sera n.10 11/3/2010, 11 marzo 2010
L’ALTRO PIRANDELLO
Storia di una famiglia italiana, e non qualsiasi. Di un premio Nobel per la letteratura e di un figlio pittore, che ha segnato una pagina importante del primo Novecento italiano, e del figlio di costui (avvocato) che ha scelto di starsene fuori dalla mischia, per non essere sopraffatto da un’investitura intellettuale, quella di essere un Pirandello. Ma poi entri nella casa romana di Pierluigi (figlio di Fausto e nipote di Luigi) e ti ritrovi un piccolo teatrino con tanto di sipario in velluto rosso e proiettori, dove ogni tanto si recita, così, per non perdere il "vizio". «Ma quando era vivo papa, guai a parlare di fronte a lui di teatro. Sbatteva la mano sul tavolo e diceva: "Qui si parla solo di pittura"», dice Pierluigi Pirandello che ha posato molte volte, da bambino e da adulto, come modello per il padre. «Non mi portò mai una volta a teatro a vedere le opere del nonno, cominciai a vederle quando già ero studente universitario». Un rapporto difficile, chiuso, tra lui e il genitore («capivo il suo valore d’artista ma lo sentivo affettivamente distante»), come del resto lo era tra il padre Luigi e il figlio Fausto, e ancora più avanti tra drammaturgo e pittore. Il padre, che oltre a scrivere dipingeva (fece anche un ritratto al nipotino Pierluigi), entrava nel merito della pittura del figlio (che pure amava scrivere). Fagocitandolo, influenzandolo nelle scelte stilistiche, fino a suggerirgli di cambiare la gradazione del colore da usare in una tela alla quale stava lavorando (Siccità, del ’36/37): «Quel verde è troppo verde», gli diceva. «Mio padre Fausto rifiutava perfino una complicità di interessi artistici tra lui e il padre, che amava Spadini, Renoir, Degas. Fausto era meno razionale e più istintivo. Luigi più razionale e meno istintivo. Mio padre lo ammirava, lo temeva e ne stava lontano, quando fuggì a Parigi, nel ’28, glielo disse per lettera».
CON TIMORATO RISPETTO Ma forse non ci si aspetterebbe niente di diverso (il confronto con questo gigante, con la paura di essere assoggettato, è per Fausto terribile), data la complessa natura di due personalità che, in entrambi i casi, hanno sondato l’inconscio e la realtà sotterranea della vita. In che misura questo legame familiare e affettivo fosse tortuoso, lo rivela quella natura morta in cui Fausto introduce come soggetto un paio di guanti: e non si può non pensare alla novella di Pirandello I guanti gialli. «Quasi un tentativo, in punta di piedi, di sdrammatizzare il padre. Ma mio padre Fausto rispettava molto la sua autorità», dice Pierluigi. Con il rispetto o la soggezione dovuti, Fausto fece il ritratto al padre, esposto nel l’importante mostra che s’inaugura il 1 marzo alla Galleria nazionale di arte moderna Roma (Fausto Pirandello alle Quadriennali del 1935 e del 1939). Ritratto che è anche in copertina al catalogo generale dell’artista edito da Electa), l’ultima fatica della gallerista storica del ’900 Claudia Gian Ferrari scomparsa di recente), e che molto ha sostenuto questo pittore, considerandolo una colonna dell’arte italiana di quel periodo. Però anche osteggiato, come ricorda Pierluigi: «Alla biennale di di Venezia del ’56, una sala era dedicata a mio padre, e un’altra ad Afro. Di fronte mio padre un amico chiese a Lionello Venturi: "A chi andrà il premio?". Lui rispose: ”Afro”. Fuggimmo da Venezia in piena notte». Un torto che forse Sgarbi riparerà alla Biennale 2011. Analizzando la pittura di Fausto, la Gian Ferrari scrive: «II corpo femminile e sovente anche maschile non è mai narrato come «espressione di bellezza, mai idealizzato, anzi è indagato in tutta la sua realtà, spesso violenta brutta, volgare. Una carnalità assoluta che, anche nell’accettazione della propria realtà di eros primigenio, contempla il senso del peccato, e quindi della colpa da espiare». Bagnanti non sono placide come quelle di Cézanne, ma inquiete per la minaccia di un temporale, e con i corpi sul punto di disfarsi anche coloristicamente. Così anche nello straordinario Nudo in prospettiva del 1923 (qui pubblicato) sembra essere servito - molti decenni più tardi - da modello a Lucien Freud, alle carni espressivamente sfatte delle sue modelle, come nel dipinto con Big Sue. Le figure dipinte da Pirandello vivono tutte un tormento a fior di pelle («mio padre amava la pitture drammatica e visionaria di Munch»), lo sresso che deve aver marchiato a fuoco, con molte insicurezze, il piccolo Fausto che, a quattro anni si ritrova con una mamma afflitta fin seguito a un episodio familiare grave (la perdita finanziaria della sua dote che il padre di Luigi Pirandello aveva investito nelle miniere di zolfo, poi allagate). «Un travaglio interiore di cui non parlò mai, ma che si riverbera nel suo dipingere», dice Pierluigi. «Mio padre, un tipo pauroso, temeva le malattie e la morte, e barattava le sue tele contro le visite del medico Lucherini». Nei ricordi di Pierluigi c’è soprattutto Pestate del 1935, ad Anticoli Corrado, paesotto laziale famoso per le sue modelle (come Pasquarosa, ma anche Pompilia, sposata da Fausto). «Nel 1934 mio nonno aveva ricevuto il Nobel e aveva passato un’estate infernale a Castiglioncello, con tutti a cercarlo per scrivere romanzi a quattro mani. Mentre lui non ci pensava proprio. Così l’anno dopo scappò da mio padre ad Anticoli. La mattina lui scriveva I giganti della montagna, mio padre dipingeva il quadro Siccità^. Che fece infuriare Mussolini in visita alla III Quadriennale di Roma, pervia della camicia rossa dei contadini, e fu poi acquistato per 8mila lire dal ministero per l’Educazione Nazionale.
Confessione del padre Fausto: «Chiedo scusa ai miei figli di averli confusi con me stesso. Li trattavo come trattavo me stesso: e so ora - lo capisco più tardi - di essermi sempre trattato male». Un crogiolarsi dentro che però torturava anche gli altri. «Nel gennaio ’43, a Roma, temendo ancora il peggio, mio padre viveva sempre in cantina. Mia madre, tramite una conoscente, riuscì a trovare una sistemazione nella disabitata Villa Medici e lì andammo. In giardino c’era una carriola che a mio padre piaceva, ma non si decideva a dipingere. Rientrati poi nella nostra casa, mi mandò a prenderla, pagò cento lire al custode per averla, dovetti trasportarla per tutta Roma e farmi sei piani a piedi per portarla a casa», racconta Pierluigi. Un padre secco nei sentimenti («quando mi laureai arrivando tardi a casa mi disse solo: "era ora!", rimproverandomi di averlo fatto aspettare per andare a tavola») e corto di borsellino («spesso mio nonno Luigi mi dava cento lire, che mia madre mi sequestrava»).
Negli anni di guerra, gli attori recitavano nelle retrovie al fronte, e alla famiglia mancava l’introito dei diritti d’autore (Luigi era morto nel ’36). Fausto diede un dipinto in cambio di un prosciutto. Dal 1944, iniziò a dipingere (fino alla fine) su cartone di risulta, mandando il figlio a recuperarlo fuori dai negozi di via Margutta. «E una volta, sotto uno di questi, trovai un barbone».