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 2010  marzo 17 Mercoledì calendario

SCII BENE RAZZOLI MEGLIO

Sul cancello sprangato dell’officina, una scritta: «Chiuso per l’oro». Fuori è seduto un uomo magro e abbronzato, con il camice da lavoro sporco di grasso e un berretto di lana bianco in testa. Piove, ma lui ha l’aria beata. Porta, appeso al collo con un nastro azzurro, un disco giallo scintillante. La medaglia d’oro che suo figlio - Giuliano Razzoli, neocampione olimpico di slalom speciale - ha riportato da Vancouver.
Vicino all’officina, dove ripara macchine agricole, c’è la casa, tutto nello stesso prato; intorno, altri prati e al massimo quindici costruzioni. Conta appena 50 abitanti, questa frazione del comune di Villa Minozzo, sull’Appennino emiliano in provincia di Reggio. E si chiama Razzolo, come Razzoli si chiamano diversi dei suoi abitanti. Compreso Giuliano detto «Razzo», lo sciatore venticinquenne che sabato 27 febbraio, con la sua vittoria al termine di un’Olimpiade sfortunata per gli azzurri, ha fatto tornare a sognare gli italiani davanti allo sci. Erano passati 18 anni dall’ultimo oro olimpico di sci alpino della nostra Nazionale (Alberto Tomba, in gigante, ad Albertville 1992) e addirittura 22 dall’ultimo trionfo in speciale (sempre Tomba, a Calgary 1988).
A Razzolo non si scia: d’inverno le colline, ricoperte di betulle spoglie, sembrano schiene di cinghiale. Giuliano, quando era un bambino piccolo, faceva ogni giorno un’ora di strada per raggiungere le piste sul crinale dell’Appennino. Lo accompagnava suo padre Antonio che, nei mesi freddi, era maestro di sci. A casa la mamma Tiziana, pittrice, e le due sorelle più grandi. Margherita e Giordana, oggi 33 e 34 anni, preparavano da mangiare per il loro ritorno. Oggi non è cambiato niente. I Razzoli al completo (tranne la madre, che non era mai partita) sono rientrati dal Canada solo da poche ore, in un paese che da cinque giorni è ubriaco di gioia e festeggiamenti, ma quando suono alla porta li trovo alle prese con tagliatelle ai lunghi e vino rosso. L’unico «esterno» a tavola è Giorgio Rocca, il campione di Livigno ex compagno di squadra di Giuliano (si è ritirato dallo sci a 35 anni, per un infortunio, proprio alla vigilia dell’Olimpiade), che a Vancouver gli ha fatto da accompagnatore e consulente, e che ormai è di casa.
La mamma non si siede un attimo, va avanti e indietro dalla cucina nonostante un «ginocchio matto» che le ha impedito di accompagnare il figlio a Vancouver. «Mi scocciava andare fin là per stare chiusa in albergo. E poi, bisognava che qualcuno rimanesse: se viene una nevicata improvvisa, abbiamo tutti i macchinari fuori da mettere al riparo». La seconda manche, quella della vittoria, non ce l’ha fatta a guardarla in Tv. «Mi sono girata solo quando ho sentito la gente urlare e ho capito che ce l’aveva fatta». A Razzolo vive anche la nonna materna di Giuliano, una signora di 86 anni. Dice mamma Tiziana: «Lei non capiva perché ci fosse tutto quel baccano e perché tutti continuassero a chiamarla, perché io avevo preferito non dirle dell’Olimpiade, per lei era una gara come un’altra. Quando la mattina dopo la vittoria è andata a messa, il parroco l’ha salutata come la nonna della medaglia d’oro e di colpo tutta la gente ha iniziato a baciarla e abbracciarla. Poverina, era sconvolta». Il padre, appena arrivato, ha dipinto la scritta sulla porta dell’officina: era un giuramento che aveva fatto in paese. Alla fine dell’anno chiuderà davvero, e per sempre, per andare in pensione. Ancora non riesce quasi a parlare per le troppe emozioni, stringe la medaglia e continua a ringraziare tutti, compresa la sottoscritta. Giuliano, con gli occhi azzurri senza ombre, mangia stretto tra i corpi protettivi delle sorelle.
 l’unico figlio maschio, per giunta più piccolo.
« come se avessi tre mamme».
Chissà che vizi.
«Per non viziarmi, mi hanno mandato a sciare a 4 anni. E mio padre non era certo tenero come maestro: diceva le cose una volta sola, la seconda era una bastonata nei polpacci. Lo sci è sempre stato la sua passione».
Temeva il suo giudizio?
«Le sue sgridate. Una volta ho fatto una brutta caduta dopo un salto e ho perso la memoria per dieci ore. L’unica cosa che ricordavo era che il babbo mi aveva detto di non andare lì a saltare: ero terrorizzato. Certo, era severo ma, se vedeva che mi ero impegnato al massimo, il risultato non contava. Troppi genitori oggi, nell’ambiente, esagerano a far pesare ai figli una gara sbagliata, quando invece dovrebbero insegnare loro a rialzarsi».
A scuola come andava?
«Bene: mai stato bocciato, e ho preso il diploma all’Istituto tecnico. Ma facevo tante assenze e, per recuperare, mi facevano saltare ogni anno la gita di classe. Sono potuto andare solo una volta».
Quando ha capito che poteva diventare un campione?
«Che avessi talento era evidente ma, prima di poterlo dimostrare, ho dovuto superare diversi guai fisici: la vista (in gara usa le lenti a contatto, ndr), un infortunio alle ginocchia, e poi alla schiena. In quarta superiore, per il dolore, a scuola dovevo stare in piedi, e in macchina sdraiato. Mi dissero che dovevo smettere di sciare».
E lei?
«Ero rassegnato: non ne potevo più di girare per dottori. Poi il babbo mi chiese di andare a un ultimo appuntamento da una professoressa di Bologna. Si chiamava Sara Soverini. Con un mese di rieducazione posturale mi rimise in piedi. "Va’ a sciare", mi diceva, "anche se ti fa male"».
Sarà stata orgogliosa della medaglia.
«Purtroppo è mancata due anni fa per una malattia».
La Nazionale azzurra è sotto accusa per non aver formato altri campioni dopo Tomba e la parentesi di Rocca. Lei che cosa ne pensa?
«Che negli ultimi tre anni, in realtà, la Nazionale ha fatto bene. Tante volte siamo stati sul podio in Coppa del Mondo, ma la gente non se ne accorge perché non li ha vinti la stessa persona. Manca un personaggio come era Tomba. Rocca, dopo di lui, è stato l’unico ad avere vittorie consecutive».
Ma che delusione, poi, quella caduta all’Olimpiade del 2006.
«Però poi ha vinto la Coppa del Mondo, e non ne parlava nessuno. La gente deve capire che lo slalom speciale non è come gli altri sport: puoi essere il più forte in assoluto - e Giorgio lo era - ma è una gara che ha troppe variabili: la neve, la pista. Oltre che forte, devi essere estremamente adattabile. E fortunato».
Tomba, in barba alle variabili, vinceva comunque.
«Di oro nello slalom speciale, però, in quattro Olimpiadi ne ha vinto uno solo. Poi, certo, ne ha vinti 35 in Coppa del Mondo, e altre tre medaglie olimpiche. Ma Tomba è stato Tomba, un mito fuori scala. Io mi accontenterei di vincere un quinto di quello che ha vinto lui».
 emiliano come lei. Era il suo idolo?
«Certo. Non ricordo Calgary, perché avevo solo 4 anni. Ma tutte le altre gare le ho seguite. Quando ne avevo 13, un anno prima del suo addio alla carriera, mi ha anche fatto l’autografo, a Cervinia. E poi, quando ha visto che stavo andando benino, ha cominciato a seguirmi lui».
Le ha mai detto che la considera il suo erede?
«Questo lo scrivono i giornalisti: per me sarebbe una responsabilità troppo grossa. Mi da consigli, certo. Mi dice: "Vinci tanto, ma non come Alberto, se no non ti lasciano più vivere". L’anno scorso, con la mia fidanzata, siamo stati in vacanza a casa sua a Sharm el Sheikh, e siamo stati benissimo. una persona generosa».
Che ama la bella vita e le belle donne. E lei?
«Anch’io mi godo i divertimenti, ma sono più moderato. Non credo Alberto esagerasse come dicevano, soprattutto prima delle gare. E comunque, se l’avessero tenuto in gabbia, uno come lui forse non avrebbe mai fatto quei risultati».
Essendo belloccio, avrà avuto anche lei parecchie ammiratrici.
«Sono uno sportivo, a scuola piacevo. In testa avevo lo sci, ma le mie ragazze le ho avute. La prima, a 11 anni».
Da due anni, però, ha una fidanzata fìssa. del suo paese?
«Non proprio, ma vicino. Eleonora ha 20 anni, studia».
Ce la descrive? «Molto carina: bruna, mediterranea».
Scia? «Sì, ma non andiamo quasi mai. Non ho tempo, e poi le altre persone si vergognano a sciare con me».
L’ha portata a Vancouver: la vostra è una storia seria?
«Non faccio progetti di matrimonio, se è questo che vuole sapere. Una famiglia la voglio, ma a fine carriera».
Giorgio Rocca si è sposato giovane, ha fatto tre figli.
«Non penso di seguire il suo esempio. Una famiglia, con una carriera come la nostra, ti carica di troppe responsabilità».
A chi si sente più vicino, tra lui e Tomba?
«Direi Alberto. Siamo emiliani tutti e due, più espansivi. Giorgio è una gran bella persona, ma tiene tutto dentro. Quando si è fatto male, penso soffrisse al pensiero di finire la carriera con un infortunio. Ma non lo lasciava vedere».
Che effetto le ha fatto trovare, sul traguardo, Alberto commosso per la sua vittoria?
«Molto piacere. Era tesissimo: lo slalom è pesante da vedere, per chi tiene alla vittoria di qualcuno. Tra le due manche ci sono 4 ore di attesa, di sofferenza. I miei genitori e i miei amici, anche qui a Villa, alla fine piangevano tutti».
E lei?
«Piango adesso, quando rivedo in Tv le immagini della gara. Quel giorno ero tranquillissimo. Nella pausa ho mangiato, mi sono riposato».
Forse non sentiva tanta pressione perché è ancora poco noto?
«Tra gli addetti ai lavori, in realtà, c’era molta aspettativa nei miei confronti. Durante la stagione, sono salito due volte sul podio in Coppa del Mondo. E poi, questa gara è l’obiettivo per cui lavoro da quando avevo 4 anni».
Un mese fa ha scritto su un biglietto che avrebbe vinto l’oro. Ci credeva davvero?
«Sì, sono andato per quello. L’argento è bello, il bronzo è bello, ma quello che ti fa entrare nella storia è l’oro».
Ha raggiunto il massimo traguardo a 25 anni. Non sarà difficile ora, per lei, trovare nuovi stimoli?
«Intanto la medaglia olimpica al collo ce l’ho: sono tranquillo. Ho tante gare che mi aspettano, e cercherò di portare a casa più vittorie possibile».
Il momento più bello, dopo la vittoria olimpica?
«Quando si apre il portellone dell’aereo a Malpensa e dietro, ad aspettarmi, c’è mia madre». Prima che ce ne andiamo, mamma Tiziana insiste per dare sia a me che al fotografo un pezzo gigante di parmigiano (squisito) che taglia da una forma intera. «Scusi se gliene do poco, di solito ne abbiamo scorte maggiori. Ma con tutte queste visite, sta andando via come il pane».