Fabio Perugia, Il Tempo 11/3/2010 Maurizio Gallo, Il Tempo 11/3/2010 Michele De Feudis , Il Tempo 11/3/2010 Maurizio Piccirilli, il tempo 11/3/2010 Maurizio Gallo, il tempo 11/3/2010 Marino Collacciani, Il Tempo 11/3/2010, 11 marzo 2010
(6 articoli)«NON VOLEVA CHE NOSTRO FIGLIO FOSSE COINVOLTO»- L’ho visto anche piangere, ma non pensavo che potesse arrivare a tanto»
(6 articoli)«NON VOLEVA CHE NOSTRO FIGLIO FOSSE COINVOLTO»- L’ho visto anche piangere, ma non pensavo che potesse arrivare a tanto». Giuseppa De Luca, moglie di Pietrino Vanacore, parla a singhiozzo. Martedì, quando i carabinieri della provincia di Taranto le hanno comunicato la morte di suo marito, si è sentita male. Un malore, racconta chi le è stato accanto i primi istanti, da cui ancora non si è ripresa. Con il figlio, che l’ha subito raggiunta a Torricella, dove vive, si è dovuta trasferire. Ora è a casa di parenti, in qualche altro paesino pugliese per sfuggire alle telecamere. «Si sono chiusi, rintanati. Non vogliono alcun contatto con l’esterno», racconta chi li ha visti. Con gli uomini dell’Arma Giuseppa è riuscita a ricostruire solo alcuni dettagli degli ultimi giorni di Vanacore: «In questo periodo non ha manifestato atteggiamenti strani», anche se era giù di morale per la notizia della riapertura del processo. I carabinieri hanno parlato di un uomo «che viveva come qualsiasi pensionato». Il portiere e sua moglie avrebbero dovuto testimoniare domani nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, che vede imputato Raniero Busco. Lei, Giuseppa, fa sapere attraverso il suo avvocato che quasi certamente non ci sarà per legittimo impedimento: il lutto. Intanto le indagini proseguono. I carabinieri stanno finendo di interrogare i parenti: «Stiamo parlando con ognuno di loro, ma nulla fa pensare a qualcosa di diverso rispetto al suicidio». Anche la moglie dell’ex portiere di via Poma in qualche modo conferma: «Pietrino - ha detto Giuseppa - non capiva il perché di questa nuova testimonianza. Soprattutto non comprendeva la necessità di coinvolgere nostro figlio». LO STRANO SUICIDIO- «Lasciate in pace la mia famiglia». nell’altro cartello d’addio il germe del dubbio. Pietrino l’aveva appallottolato: gli era venuto male, così ci si era concentrati sull’altro messaggio, quello sui «20 anni di sospetti». Ma se la dietrologia si aggrappa a ogni presunto indizio, quello potrebbe essere un messaggio cifrato contro i suoi possibili persecutori, che lo avrebbero "istigato al suicidio", inducendolo al sacrificio per salvare i suoi cari da una qualche oscura, terribile minaccia. Obietteranno: "lasciate in pace la mia famiglia" va decodificato in modo trasparente, come un "non costringete mia moglie e mio figlio al supplizio di una testimonianza al processo". In quel caso la morte di Vanacore sarebbe stata vana: Giuseppa e Mario non potranno "avvalersi della facoltà di non rispondere", come invece avrebbe potuto fare lui. Certo, "istigazione al suicidio" può essere solo un tecnicismo investigativo per consentire l’autopsia. Ma qualche elemento bizzarro si intravede, in filigrana, nelle acque di Torricella. Molto basse, a cinque metri dalla riva, per decidere di annegarsi volontariamente. L’avevano avvelenato? Però l’uomo poteva essersi stordito da solo bevendo mezza bottiglietta (trovata nell’auto) di diserbante (gli esami tossicologici dimostreranno se così è andata), e quel suo legarsi una caviglia alla corda assicurata a un pino marittimo, lì a picco sugli scogli, poteva riconfermarne la glaciale determinazione di farla finita, senza incorrere nei ripensamenti dell’ultimo istante. Di certo, voleva che il suo cadavere fosse ritrovato, e che la propria fine risultasse più eloquente, mediaticamente deflagrante, di ogni biglietto o rivelazione di commiato. Lui che aveva sempre cercato di sfuggire alle telecamere, è andato a offrire il corpo a una ecumenica visibilità. E questo inquieta: se non vi è stata regia esterna, la sua uscita di scena è in aperto contrasto con ogni scelta di vita. L’avevano visto, l’altra mattina, indecifrabile nella propria grigia imperturbabilità: in questo ancora in sintonia con quel carattere apparentemente glaciale. Infatti nessuno si era preoccupato: né gli amici del caffé, né la donna della trattoria che lo aveva notato andare verso il mare con quella corda. Immaginava una battuta di pesca. Pietro aveva già fatto la spesa:, frutta, una "zeppola" pasquale, una pagnotta di Altamura per Peppa. Verso le undici, un’ora prima del ritrovamento, qualcuno lo aveva incrociato in piazza: mangiava un mandarino sotto la statua di Padre Pio. Se sapeva qualcosa di via Poma, in quel momento lo stava raccontando al santo. Per l’ultima volta. AL SETACCIO CONTI E TELEFONATE TARANTO - L’autopsia ha confermato che Pietrino Vanacore è morto per annegamento nel mare di Torre Ovo. Questo è stato il responso nella serata di ieri degli esami a cui è stato sottoposto il corpo dell’ex portiere di via Poma nell’ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto, sotto l’egida del medico legale Vito Sarcinella. Aveva i polmoni pieni di acqua e probabilmente è rimasto in mare per più di due ore. Sul possibile avvelenamento prima di lasciarsi cadere nella conca vicino agli scogli non ci sono certezze. I primi dati rilevati dagli specialisti non consentono una lettura univoca: di sicuro aveva mangiato un dolce o una zeppola nelle ore precedenti il suo arrivo sul litorale. Non sono state trovate al momento tracce del liquido tossico presente in bottiglia nell’auto e nel garage della sua abitazione, ma potrebbe risultare diluito dall’acqua salata che ne ha cagionato la morte. E sull’argomento bisognerà attendere un paio di mesi per il responso delle analisi. Se da un lato si inizia a delineare la dinamica del gesto disperato compiuto dall’uomo, dall’altro la procura del capoluogo jonico ha iniziato a scandagliare ogni angolo della vita di Vanacore. Il pm Maurizio Carbone, che ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, è intenzionato a fare luce sulle ultime ore di vita del settantottenne. Le vicissitudini che hanno acuito la voglia di farla finita in un soggetto già psicologicamente provato saranno riscontrate anche attraverso una ricerca dettagliata che passerà per lo studio dei suoi tabulati telefonici e dei conti correnti. Per questo il magistrato ha dato mandato ai carabinieri della Compagnia di Manduria, già intervenuti sul luogo del suicidio, di ascoltare i due amici con cui aveva preso il caffè nella mattina di martedì e la moglie Giuseppina De Luca. La donna, che sarà ascoltata come teste nel processo in corso presso il Tribunale di Roma sul caso Cesaroni, è apparsa ancora sotto shock. Per quanto si è appreso, la donna avrebbe evidenziato «la forte amarezza di Pierino rispetto alle ricorrenti voci e sospetti che aleggiavano sulla sua persona». Di ipotesi di suicidio, invece, in famiglia nessuno ne aveva sentore. La delusione per il possibile ritornare sotto i riflettori del procedimento giudiziario però contribuiva ad angariarlo. Sconcerto e commozione, intanto, sono i sentimenti della comunità di Torricella. Il sindaco del piccolo borgo, Giuseppe Turco, è tornato a tratteggiare il carattere di Pierino. «Era un uomo ben voluto da tutti - spiega - e mai nessun concittadino aveva pensato che potesse essere coinvolto nel giallo di via Poma». C’era l’abitudine in paese, ogni qualvolta arrivava un giornalista per cercarlo, di fare scudo, magari raccontando che non viveva più lì: un modo come un altro per difendere la riservatezza di Pierino. «La nostra è una cittadina nella quale ci conosciamo tutti. E Vanacore era unanimamente ritenuto un uomo perbene. Taciturno, chiuso, ma sempre cortese con chi gli rivolgeva la parola». La quotidianità di Torricella è sempre molto ripetitiva. «Veniva in paese, prendeva il caffè nel solito bar. Poi andava a comprare il giornale e a fare la spesa. Un comportamento molto lineare - aggiunge - che non aveva mai destato sospetti sull’eventualità di finire la sua esistenza in modo tragico». Alcuni concittadini raccontano che spesso lo vedevano soffermarsi davanti alla statua di Padre Pio, così come il primo cittadino ricorda che Pierino era un frequentatore della locale cappella. UNA STORIA DI VOLPONI- Di tutti i lati oscuri dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, quello meno esplorato è la società per la quale la ragazza lavorava. La «Reli sas» di Salvatore Volponi e di Ermanno Bizzocchi, aveva sede al Casilino in via Maggi. Una società di servizio che gestiva la contabilità per vari clienti. Tra questi l’A.I.A.G., l’associazione per gli alberghi della gioventù, sede in via Poma 2 al terzo piano, al quartiere Prati. Dall’altra parte della città. Quel 7 agosto non era la prima volta che Simonetta Cesaroni andava a lavorare nell’ufficio degli alberghi della gioventù. Due volte a settimana, come risulta dagli accertamenti svolti dagli investigatori. Eppure, Simonetta non racconta a nessuno dei suoi familiari la circostanza. Non solo. Salvatore Volponi la sera del 7 agosto, quando Paola Cesaroni lo chiama per sapere dove sia la sorella afferma di non saperlo. Si decide a parlare solo dopo le insistenze e la minaccia di chiamare la polizia. E Salvatore Volponi quando arriva in via Poma con i familiari di Simonetta, in quell’ufficio che «non sapeva dove fosse» si rivolge alla portiera, Giuseppa De Luca, moglie di Vanacore, e le dice «Non si ricorda di me?». Volponi aveva quindi mentito a Paola. Volponi tace su molti dettagli del lavoro di Simonetta. Sono le testimonianze delle colleghe che confermano. Infatti, la mattina del 7 agosto Simonetta è nella sede della Reli in via Maggi. lì per discutere con Volponi delle sue ferie. In quell’occasione il datore di lavoro comunica a Simonetta che nel pomeriggio deve recarsi nell’ufficio di via Poma. Poi come d’abitudine si sentiranno al telefono verso le 18,30. La telefonata non ci sarà, ma Volponi non si allarma. Almeno questo sembra accadere. La conferma della presenza frequente di Simonetta in via Poma, arriva con le testimonianza di una dipendente dell’Aiag, Anita Baldi. La donna ha sostenuto davanti al pm Cavallone che era l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente degli alberghi della gioventù, a chiedere che Simonetta Cesaroni lavorasse presso di loro. Da sola, aveva lavorato in via Poma il 31 luglio, il giovedì 2 e il giorno successivo 3 agosto. Trascorso il fine settimana, il martedì 7 agosto, Simonetta Cesaroni era tornata nella sede degli alberghi della gioventù. Volponi tra l’altro sa molte cose su Simonetta. Cose che non riferisce a nessuno. Né agli investigatori né ai familiari. Lo farà dieci anni dopo in un libro dove rivela che Simonetta a quel tempo frequentava un altro ragazzo. Chiamato a riferire ai magistrati liquiderà l’episodio con un «pensavo non fosse importante». L’attività di Simonetta nell’ufficio di via Poma era rimasta sempre nebulosa. Così come nebulosa è la figura di Francesco Caracciolo di Sarno, titolare di una fattoria nella Bassa Sabina, la tenuta Tarano ora trasformata in un agriturismo. Quel 7 agosto Caracciolo ufficialmente era in campagna. L’avvocato non ama la pubblicità. A una giornalista del settimanale «Oggi» che riesce a incontrarlo nel giugno scorso, Francesco Caracciolo dichiara: «Dica che non ci sono più». Di fatto vive come un eremita. Eppure qualcuno telefonò all’utenza del suo fattore, Mario Macinati, nel pomeriggio del 7 agosto e poi la sera, prima del ritrovamento del cadavere di Simonetta. Due telefonate partite dall’ufficio di via Poma. Due telefonate che si ricollegano alla famosa «agendina Lavazza» di proprietà di Pietrino Vanacore rinvenuta dalla polizia nell’appartamento del delitto. Il conte Francesco Caracciolo resta così nell’oblio delle indagini e nella ambiguità sospetta di contatti con i servizi segreti. Infatti l’azienda che ha fornito il software per la gestione contabile del computer sul quale lavora Simonetta è di una società collegata ai servizi segreti. La Insirio spa è anche la ditta chiamata dai magistrati a fare la perizia su quel computer. Francesco Caracciolo ha sicuramente buoni contatti e rapporti nei posti che contano. Riesce a far ripulire l’appartamento da una ditta specializzata appena cinque giorni dopo l’omicidio. Una pulizia a fondo. In assenza di Luminor, lo speciale mezzo per rilevare tracce di sangue, all’epoca diviene impossibile trovare elementi ematici. Non solo. Alla fine di quell’anno maledetto, Francesco Caracciolo decide di trasferire la sede dell’Aiag. Vende i vecchi mobili, e nessuno sa dove siano finiti. Maurizio Piccirilli, il tempo 11/3/2010 «IN QUEL DELITTO AGIRONO IN DUE» Sulla scena del crimine hanno operato due persone diverse con finalità diverse. Il primo è l’assassino. Il secondo è qualcuno che ha pulito la stanza del delitto, sviando così le indagini. la tesi del libro «La ragazza con l’ombrellino rosa» di Igor Patruno, 54 anni, giornalista free-lance che si occupa di comunicazione. Perché lo ha scritto? «Sono un appassionato lettore di gialli. E due omicidi mi hanno colpito in modo particolare: il delitto Montesi e quello Cesaroni. Hanno in comune il fatto di essere stati omicidi mediatici, hanno stimolato l’immaginario collettivo e segnato uno spartiacque nel modo in cui veniva raccontato un episodio criminale, creando schieramenti netti e contrapposti di innocentisti e colpevolisti sulla stampa e tra l’opinione pubblica. E poi c’è un altro aspetto...». Quale? «Erano entrambe due ragazze del popolo che sono andate a morire in un ambiente diverso dal loro. Simonetta è una ragazza di periferia uccisa in un palazzo di ricchi. Wilma Montesi è una popolana che si suppone abbia partecipato a un festino di potenti. questo che ha colpito l’immaginazione della gente». Nel suo lavoro sostiene due tesi. Ce le vuole esporre? «La prima è basata su un fatto certo: qualcuno è entrato nell’ufficio di via Poma dopo l’assassinio e ha alterato in modo determinante la scena del delitto». Che può essere accaduto? «Chi entrato, usando chiavi in suo possesso, ha visto il computer e la luce accesi, le serrande alzate e tutto il resto del locale al buio. Molto probabilmente è entrato nella stanza dove si trovava il cadavere, si è spaventato. E ha calpestato il sangue». A questo punto? «Preoccupato di essere coinvolto, ha fatto due telefonate. Cercava l’avvocato Caracciolo, il presidente dell’Associazione alberghi della gioventù. E sapeva che dalle 17 alle 20-20,30 Caracciolo era all’aeroporto per accompagnare la figlia. Quindi ha chiamato alle 20,30. A questa telefonata ha risposto la moglie di Macinati, il factotum dell’avvocato. Poi ha richiamato alle 23, mezz’ora prima che il corpo di Simona venisse scoperto, e ha risposto lo stesso Macinati». Macinati e la moglie hanno negato, però, di aver ricevuto queste chiamate... «E sono stati accusati di falsa testimonianza, anche perché ci sono intercettazioni che dimostrano come invece le abbiano ricevute». Perché a pulire non può essere stato lo stesso omicida? «Quello di via Poma appare decisamente un omicidio d’impeto, lo dimostrano anche le 29 coltellate. Non si capisce, allora, come il colpevole riesca in poco tempo a recuperare totalmente la lucidità, a pulire tutto, a mettere in ordine i locali e a dare quattro mandate uscendo». Che cosa indica quel modo di chiudere la porta? «Per me, indica un’abitudine». Passiamo alla seconda tesi. «Finora è stata prestata poca attenzione alla nuova conoscenza che Simonetta probabilmente aveva stabilito in quel periodo di rapporto burrascoso col fidanzato. La nipote di Volponi riferisce che a fine giugno o all’inizio di luglio le aveva confidato che c’era un ragazzo nuovo. Ma non è il ragazzo di Tor San Lorenzo a cui tutti hanno fatto riferimento, perché i tempi non corrispondono. Dove lo ha conosciuto Simona? In via POma o altrove?Bisognerebbe scavare di più su questo rapporto. Invece non è stato mai fatto». NATHALY ASSOLVE PIETRINO- Parole e similitudine di Nathaly Caldonazzo, da noi intervistata sulla vicenda di Pietrino Vanacore, memore di un lavoro teatrale, «La Trappola» con Giancarlo Zanetti. «Un thriller psicologico - spiega la bella attrice - che mi ha avvicinato molto, anche grazie alla dinamica del racconto basato su ipotesi e mai di certezze, alla vicenda umana di Vanacore». Nathaly, lei ha sempre seguito il delitto di via Poma? «Quando accadde ero una bambina e la percezione del fatto fu minima: ero troppo distante da quel tipo di informazione, sicuramente più vicina alle bambole che agli omicidi. Poi, però, quella storia mi ha incuriosito profondamente». Qual è il principale motivo del suo interesse per l’omicidio di Simonetta Cesaroni? «Il fatto che se ne parli da vent’anni e ancora non sia stato trovato il colpevole». Si è fatta un’idea di chi potrebbe essere l’assassino? «Personalmente no, ma credo che siano in molti ormai a saperlo». Il suicidio di Vanacore potrebbe essere stato istigato? Lei crede alla possibilità di un delitto «mascherato»? «No, penso soltanto a una tragedia umana». Che idea si è fatta del portiere pugliese? «Penso, con grande pena, a un essere umano che si è tolto la vita dopo essere stato perseguitato senza pietà per vent’anni». Qualcuno ha ipotizzato un passaggio di danaro per comprare il suo silenzio: crede a questa pista? «Sinceramente no, perché chi è ricattato per così tanto tempo è capace di gestire il gioco, ha una personalità deviata e quindi, a livello delinquenziale, forte. Non mi sembra proprio il caso di Vanacore, persona assolutamente antitetica a questo quadro: debole, confuso, stanco e ormai deciso a un solo, drammatico e ultimo passo». Per arrivare al suicidio però... «No, non voglio cavalcare altre piste se non quella della disperazione. Se penso a Vanacore immagino un uomo che ha vissuto un’esistenza priva di grandi soddisfazioni, una vita di retroguardia, di orari precisi, di una casa buia nel sottoscala, di uno stipendio misero. Poi, all’improvviso, una popolarità inaspettata quanto non voluta. Di sicuro non produttiva e nemmeno sufficiente a tenerlo lontano dall’inizio di un tormento». La pensione, il ritorno al suo paese natìo, in Puglia, non avrebbe dovuto aiutarlo? «Purtroppo è accaduto l’esatto contrario: la sua depressione è diventata ancor più evidente. Secondo me, anche se l’impatto mediatico era notevolmente ridotto nei suoi confronti, la lontananza da una vita attiva, o quantomeno cadenzata, ha lasciato il posto a nuovi problemi». Qual è stato il fattore nuovo in questa seconda vita? Perché il ritorno in un piccolo centro non si è trasformato per lui in un «buen retiro»? «Può sembrare incredibile, ma la gente è invidiosa anche dei drammi. L’"importante" è che ti abbiano portato sulle prime pagine dei giornali o in televisione. In un piccolo paese è più facile cogliere una pressione di questo tipo che per giunta non ha filtri: è diretta come una spada, quella del sospetto. In certe situazioni logistiche gli innocentisti sono merce rara. Per questo credo che le nuove comunicazioni per comparire in tribunale, per giunta con moglie e figlio, siano state ulteriore linfa per un gossip ormai intollerabile per un uomo distrutto. E ormai solo con stesso». Qual è la sua speranza? «Che Pietrino Vanacore abbia lasciato scritta tutta la verità su quel delitto da qualche parte». Lei ha un figlia di cinque anni e mezzo: è preoccupata di vederla crescere a Roma? «Ci rifletto spesso. La mia non è una città violenta, ma è diventata pericolosa. Soprattutto a causa dell’ingresso di molti extracomunitari cacciati dai Paesi d’origine per i reati commessi. E degli zingari. Mai come oggi è necessario monitorare le frequentazioni dei figli, avviare con loro un dialogo costante e un rapporto di fiducia. Oggi frequento tante mamme e papà straordinari: ecco, invito tutti, me compresa, a mantenere alto il livello di qualità e di presenza anche negli anni a venire». E di Simonetta cosa pensa? «Dalla sue lettere, da quanto ho appreso dai giornali era una ragazza dolcissima, romantica. Ancora sentimentalmente adolescente e desiderosa di vivere un sogno: chiedeva solo amore. Mi si stringe il cuore». Interpreterebbe il ruolo di quella povera ragazza in un un film? «Sì, ma solo dopo che sarà risolto il "giallo". E ci vorrà uno sceneggiatore straordinario, in grado di ricomporre le tessere di un mosaico così variegato». Per adesso Nathaly Caldonazzo pensa a ultimare le prove di «Uomini sull’orlo di una crisi di nervi», in locandina dal 19 marzo al teatro «Golden» di via Taranto a Roma, per la regia di Alessandro Capone. Accanto a lei, Roberto Ciufoli, Massimiliano Giovannetti e Paolo Ricca. Marino Collacciani, Il Tempo 11/3/2010