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 2010  marzo 09 Martedì calendario

IRAQ AL VOTO, MA LA STABILITA’ E’ LONTANA

Non era affatto scontato che sei iracheni su dieci sarebbero andati a votare nonostante le bombe ma gli analisti pensano a domani: la domanda è come, più che da chi, verrà applicato il verdetto delle urne. L’impressione è che al momento la maturità democratica della popolazione non sia esattamente proporzionale a quella dei suoi rappresentanti. Gli elettori hanno fatto il loro lavoro: sapranno gli eletti esserne all’altezza?
«Pur essendo buona, il 62% è un’affluenza minore della volta precedente, quando a votare fu il 70%, e rivela l’insoddisfazione della gente per l’incapacità politica dei leader», osserva James Denselow, esperto di Medio Oriente del King’s College di Londra. La sicurezza, ammette, ha fatto passi da gigante rispetto alle 3000 vittime civili al mese del 2007 e ci sono stati progressi anche nel campo della trasparenza: «Gli iracheni hanno fiducia nella democrazia, il sistema delle liste aperte ha permesso loro di scegliere il candidato anzichè la lista». Se però la guerra volge al termine, a che punto è la politica? «La costruzione del paese è in alto mare, appena il 25% della popolazione ha accesso all’elettricità, il 22% è malnutrita, la disoccupazione è altissima, chiunque ottenga la maggioranza dovrà governare davvero, soprattutto perchè gli americani stanno per andar via».
L’emergenza durerà fin quando il presidente Obama suonerà la ritirata, alla fine del 2011, poi bisognerà gestire la normalità. Secondo Fawaz A. Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, non c’è da confidare molto nello scenario che emergerà dal fumo della battaglia: «La massiccia partecipazione dei sunniti al voto è una buona notizia ma prevedo che il prossimo governo sarà simile al precedente, una coalizione su base settaria, l’unica possibile nelle condizioni del paese dopo l’invasione e l’occupazione americana». Eravamo più sicuri quando era Saddam a tenere in scacco il tribalismo centrifugo? «Non scherziamo, Saddam era un dittatore feroce. Solo che un sistema pessimo è stato sostituito con uno altrettanto negativo. L’Iraq oggi è più simile al Libano con le sue quote per ciascun gruppo che a una democrazia occidentale: questa instabilità istituzionalizzata, non al Qaeda, è la vera ipoteca sul futuro».
Come se non bastassero le tradizionali tensioni tra sunniti e sciiti c’è l’ambizione autonomista dei curdi. «All’emergere di un nuovo nazionalismo arabo, possibile soluzione alle divergenze religiose, corrisponde un irrigidimento sul fronte curdo che potrebbe minare la futura coalizione» nota Robert Lowe della think tank Chatman House. Chiunque vinca non potrà governare da solo perché, verosimilmente, nessun partito otterrà più d’un terzo dei voti. E, sostiene il geopolitologo del Toby Dodge, c’è da aspettarsi che Teheran non resti a guardare: «Negli ultimi tre anni l’influenza americana sull’Iraq è diminuita ed è cresciuta quella dell’Iran». Gli esami, per gli iracheni, non finiscono mai.