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 2010  marzo 10 Mercoledì calendario

Passiamo a Mazzini (vedi scheda precedente) Giuseppe Mazzini aveva in comune con Garibaldi una condanna morte in contumacia, come ”nemico della Patria e dello Stato”, inflitta loro dal governo piemontese, che li aveva dichiarati entrambi ”banditi di primo catalogo”; questa condanna non è mai stata revocata! Dopo i moti carbonari del 1831, andò in esilio a Marsiglia

Passiamo a Mazzini (vedi scheda precedente) Giuseppe Mazzini aveva in comune con Garibaldi una condanna morte in contumacia, come ”nemico della Patria e dello Stato”, inflitta loro dal governo piemontese, che li aveva dichiarati entrambi ”banditi di primo catalogo”; questa condanna non è mai stata revocata! Dopo i moti carbonari del 1831, andò in esilio a Marsiglia. Qui costituì una nuova associazione terroristica che avrebbe sostituito la Carboneria: la Giovine Italia, riservata a chi non avesse superato i quarant’anni di età. Ogni adepto assumeva un nome di battaglia e pronunciava questo giuramento: «Io, cittadino italiano, davanti a Dio… giuro di consacrarmi tutto e sempre con tutte le mie potenze morali e fisiche alla Patria ed alla sua rigenerazione… di spegnere (cioè: di ammazzare) col braccio ed infamar con la voce i tiranni e la tirannide politica, civile, morale cittadina, straniera… di cercare per ogni via che gli uomini della Giovine Italia ottengano la direzione delle cose pubbliche (il solito vizietto della caccia alle poltrone!), di non rivelare per seduzioni o tormenti l’esistenza, lo scopo della Federazione, e di distruggere (cioè: sempre ammazzare), potendo, il rivelatore…». Questi macabri intenti erano formulati in nome del popolo, di quel popolo che Mazzini, con la vita ritirata che conduceva, non conosceva e non conobbe mai! Mazzini prese nome di battaglia di Filippo Strozzi, ma i suoi compagni lo chiamavano Pippo. Il motto della Giovine Italia era ”pensiero e azione”: per pensiero si deve intendere la propaganda mazziniana, per azione l’insurrezione armata. A Marsiglia andava in giro travestito, qualche volta anche da donna. Un giorno conobbe la pasionaria milanese Giuditta Sidoli, vedova di un rivoluzionario reggiano condannato a morte per i moti del 1821 e madre di quattro figli. Pippo e Giuditta fecero una scappatella a Ginevra, da dove la pasionaria tornò con un bambino in braccio, il figlio di Mazzini. I due affidarono il piccolo all’amico Demostene Ollivier, che se ne prese cura come un figlio suo; poi Giuditta scomparve dalla vita di Mazzini. E quell’ipocrita ebbe perfino il coraggio di scrivere un libro sui Doveri dell’uomo! In realtà, il nostro personaggio, aduso a restare… ”prudentemente” dietro le quinte e ben badando a non esporsi mai in prima persona, fu solamente un grandissimo vigliacco; comunque, la sua ”carriera” di cospiratore, tanto in ”pensiero”, quanto in ”azione”, fu caratterizzata da un continuo susseguirsi di insuccessi. Nel 1833, la polizia piemontese riuscì a scoprire una vasta attività cospiratoria mazziniana nei bassi gradi dell’esercito, soprattutto fra i sottufficiali: a Genova fu scoperto il gruppo dei fratelli Ruffini (Agostino, Giovanni e Jacopo). Come al solito, questi cospiratori, in gran parte ”eroi da operetta”, una volta arrestati, ”cantarono”. Jacopo, arrestato, si era suicidato, convinto di essere stato denunciato dai suoi stessi compagni; Agostino era fuggito con la madre a Marsiglia da Mazzini, per averne conforto; ma Pippo aveva altro per la testa… Tutti gli perdonarono la sua sbandata passionale, ma non Agostino Ruffini che, da allora, divenne apertamente ostile al suo vecchio idolo. Nel dicembre 1833, Mazzini in persona consegnò un pugnale, un passaporto e mille franchi all’esule parmense Antonio Gallenga, che si era offerto di compiere un attentato alla vita del re Carlo Alberto a Torino. Il mazziniano Gallenga, però, non mantenne la promessa e fu poi fatto… prefetto e senatore del Regno. Per rincuorare gli indecisi, abbattuti per tutti i tradimenti e gli arresti avvenuti, dal pensiero, Mazzini decise di passare all’azione. Pensò che la scintilla dovesse essere accesa al Sud. Prese contatti con i suoi confratelli terroristi degli Stati napoletano e pontificio. Ne prese anche con Sciabolone, un brigante che terrorizzava l’Abruzzo. Poi ebbe l’idea di una spedizione in Savoia con un corpo di volontari reclutati fra gli esuli. Il comando fu affidato al ”generale” Gerolamo Ramorino, avventuriero, giocatore e donnaiolo, che andava a combattere anche per sfuggire ai suoi creditori. Mazzini, a Ginevra, gli consegnò 40 mila franchi, con l’impegno di arruolare mille ”volontari”; ma Ramorino andò a giocarsi i soldi a Parigi. Mazzini, testardo, fissò l’azione per la notte del 1° febbraio 1834; Ramorino si presentò, invece che con i mille uomini, con altri due generali (sic!), un aiutante ed un medico, rifiutandosi di attraversare il confine e dichiarando l’impresa irrealizzabile. Le loro speranze erano riposte sui marinai di Genova: ma sul luogo ed all’ora fissata per l’insurrezione, si trovarono in due soli (’si trovarono” per modo di dire, perché in realtà ”si persero”, non solo d’animo, ma anche di vista), già identificati e braccati dalla polizia. Uno dei due era Garibaldi che, condannato a morte, come già detto, si rifugiò in Francia, da dove emigrò in America Latina, ivi mettendo il braccio a disposizione di vari dittatorelli di quei paesi e vivendo come un bandito. Mazzini, invece di riconoscere il suo fallimento, scrisse al suo amico Rosales: ”Il popolo e i capi-popolo hanno mancato. Che Dio fulmini loro e me prima!” Dopo il fallimento della spedizione in Savoia, Mazzini sembrava un uomo finito. A Berna fondò la Giovine Europa, il cui programma era quello della Giovine Italia ampliato a tutto il continente. Fondò anche una Giovine Svizzera: e questo la dice lunga sul suo ”patriottismo”… esclusivamente italiano. Ma subito dopo piombò in una profonda crisi depressiva, che lo condusse sull’orlo della follia. Espulso dalla Svizzera, arrivò a Londra, tradizionale covo di tutti i rivoluzionari senza-patria. Quando cercò di riprendere l’attività cospiratoria, si accorse di aver ispirato molti imitatori, che però ne contestavano l’autorità. Era il caso di Nicola Fabrizi, che con la sua Legione Italica rivendicava a sé la qualifica di capo, e dei fratelli Bandiera, che nel 1844 sbarcarono a Crotone con la presunzione di accendervi la rivolta. Attilio ed Emilio Bandiera, con sette dei loro compagni, caddero sotto il plotone di esecuzione; gli altri furono graziati ed avviati all’ergastolo. Non erano stati mandati da Mazzini, ma queste imprese rientravano nei metodi di lotta insurrezionale che egli aveva predicato e praticato. Nel 1848, Mazzini elogiò gli assassini del comandante austriaco dell’arsenale di Venezia, Giovanni Marinovich e del conte Pellegrino Rossi, uno dei migliori amici del papa Pio IX, ministro degli Interni pontificio, a Roma. Nella notte fra il 24 ed il 25 novembre 1848, i rivoluzionari costrinsero Pio IX a fuggire da Roma ed a rifugiarsi a Gaeta, sotto la protezione del Re di Napoli, Ferdinando II. Goffredo Mameli mandò un messaggio a Mazzini: ”Roma! Repubblica! Venite!” Il terrorista accorse, entrando a far parte del famoso triunvirato (Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi), che nel marzo 1849 aveva sostituito quello costituito da Carlo Armellini, Mattia Montecchi ed Aurelio Saliceti. S’installò in una stanza del Quirinale, assegnandosi uno stipendio di trentadue lire al mese. Tutti i decreti della Repubblica Romana venivano intestati col motto della Giovine Italia: ”Dio (un Dio tutto suo!…) e Popolo”. Dichiarò guerra alla Chiesa ed alla proprietà, propugnando l’espropriazione di tutti i beni ecclesiastici. Nel frattempo, assassinii politici venivano commessi in pieno giorno da gruppi mazziniani con nomi significativi: Lega infernale, Compagnia infernale, Lega di sangue. A Senigallia fu assassinato l’arcivescovo, che si era rifiutato di celebrare il Te Deum per la repubblica. Il popolo chiamava questi settari mazziniani dal pugnale facile: ”ammazzarelli”. Nell’aprile del 1849, la Francia inviava un corpo di spedizione, comandato dal generale Nicholas Charles Oudinot, che sbarcava a Civitavecchia. Nel frattempo a Roma arrivavano rinforzi, fra cui il romagnolo Callimaco Zambianchi, liberato dalla galera dove si trovava incolpato di nove omicidi: gli uomini ai suoi ordini fucilarono almeno quaranta preti e monaci sospettati di cospirare contro il governo! Nel giro di due mesi, Roma veniva strappata ai rivoluzionari. Garibaldi si salvò con una rocambolesca fuga in Tunisia, dove trovò una nave per New York; Mazzini se ne tornò in Inghilterra, passando per Marsiglia. Mazzini giocò ancora alla rivoluzione, naturalmente sulla pelle degli altri (fedele alla sua già ben collaudata tecnica dell’”armiamoci e partite”): nel febbraio 1853 fece scoppiare l’insurrezione antiaustriaca dei ”Barabba”, gli operai di Milano. Gli avevano assicurato che tremila uomini erano pronti ad impugnare le armi, ma solo alcune centinaia di questi poveracci assaltarono le caserme, lasciando sul selciato una sessantina di austriaci tra morti e feriti. Qualche giorno dopo, gli insorti catturati furono impiccati: ancora sangue… rigorosamente altrui! Mazzini sciolse la sua organizzazione di Londra ed annunciò la nascita di un nuovo partito, il Partito d’Azione (i cui discendenti, nel corso della seconda guerra mondiale, invocavano i bombardamenti anglo-americani sulle città italiane, per demoralizzare la popolazione ed affrettare la caduta di quel regime fascista che, poi, nella sua ultima versione della Repubblica Sociale, si richiamava espressamente proprio alla figura di Giuseppe Mazzini!). Nel 1857, dopo vari tentativi insurrezionali, fu la volta di Carlo Pisacane; espatriato per sfuggire al marito della sua amante, Enrichetta di Lorenzo, nel 1847 si era arruolato nella Legione Straniera, impegnata nella conquista coloniale dell’Algeria. Congedatosi, si ritirò con Enrichetta in Ticino, dove divenne ”consigliere militare” di Mazzini, col quale redigeva vasti piani di operazioni per un esercito che… non esisteva! Nel maggio 1857, Mazzini gli mise a disposizione dei fondi, con cui Pisacane, nel giugno successivo, organizzò la ”spedizione di Sapri”, conclusasi, dopo la liberazione di 323 delinquenti detenuti nell’isola di Ponza (di cui solamente una dozzina aveva subito condanne per motivi politici), con l’uccisione o la cattura di tutti i rivoluzionari. Da quell’ultimo fallimento in poi, Mazzini sopravvisse a se stesso, rassegnandosi a cedere l’iniziativa a quell’altro ”galantuomo” di Cavour. Giuseppe Mazzini fu il primo ”tangentista” dell’Italia unita. Infatti, appena fatta l’”unità d’Italia”, egli cercò di mettere le mani sulla ricchissima torta dell’affare delle Ferrovie Meridionali, del valore potenziale di un miliardo e mezzo di lire oro dell’epoca (circa 75 miliardi di euro). Le risorse finanziarie, già reperite dal governo napoletano per la parte necessaria a coprire l’avvio dell’opera, erano state ”sbancate” da Garibaldi e dilapidate in mille rivoli, fra cui pensioni a presunti ”perseguitati” politici; c’erano pronti i progetti esecutivi realizzati attraverso un concorso, a bando internazionale, vinto dalla famiglia di imprenditori francesi Talabot. Garibaldi, ignorando i vincitori della gara internazionale, affidò al banchiere Pietro Augusto Adami – che l’aveva sollecitato esibendo le sue benemerenze di ”finanziatore della spedizione dei Mille” – l’incarico di realizzare le Ferrovie del Sud. Anche un altro banchiere, Adriano Lemmi (Gran Maestro della massoneria italiana dell’epoca), peraltro cognato dell’Adami, aspirava al medesimo incarico; quest’ultimo, a sua volta, aveva finanziato la spedizione di Carlo Pisacane e, quindi, passava… all’incasso di questa ”cambiale”, munito di ”lettera di raccomandazione” autografa dell’”Apostolo puro”, tutto casa, massoneria e giovine Italia, Giuseppe Mazzini; latore ne era lo stesso Lemmi, destinatario era Francesco Crispi, plenipotenziario per la Sicilia. Il fondatore della Giovine Italia così scriveva: «Fratello, il portatore Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico, da vent’anni, e fece sacrifici considerevoli per la Causa. Ei viene a trattar cosa importante concernente la concessione fatta recentemente per le vie ferrate all’Adami. Uditelo, vi prego; spiegherà egli ogni cosa. Io soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò d’ogni frutto d’impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito, non la sua. Vogliatemi bene». Per non scontentare nessuno, il duo Garibaldi-Crispi assegnò l’affare delle Ferrovie del Sud metà a Lemmi e metà all’Adami, ma i due, successivamente, furono costretti a rinunciare all’incarico per difficoltà tecnico-finanziarie… (sic!). L’operazione assunse aspetti decisamente squallidi e vide, poi, coinvolti il ministro delle Finanze Pietro Bastogi e gran parte dei parlamentari, che si spartirono la ”torta”. La Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita per indagare su questo ”scandalo delle Ferrovie”, propose ed ottenne l’archiviazione del caso. Si trattò del primo ”scandalo insabbiato”, come si rivelerà poi nella migliore tradizione dell’Italia ”unita”, tanto monarchica che repubblicana; ma la grande commedia italica (peraltro attualissima, in quanto la stessa tangentopoli degli anni Novanta del XX secolo, a questo punto, non dovrebbe destare alcuna meraviglia!) dei corrotti e dei corruttori, di Faust che vende l’anima per una mazzetta, era appena iniziata. Su il sipario! ’L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani”, sosteneva Massimo d’Azeglio; ma, contrariamente a quanto questi credesse, gli Italiani (non così diversi dagli Italiani di oggi) erano già da allora belli e fatti! Infatti, uno sguardo d’insieme che, non limitandosi alla sola ”questione meridionale”, esamini complessivamente l’attuale situazione italiana, pone in evidenza un inquietante parallelismo tra le vicende legate alla nascita dello Stato unitario e quelle che hanno inquinato la vita dell’Italia democratica del nostro tempo. Ed è solo comprendendo, al di là della retorica scolastica, come è nata male l’Italia di Vittorio Emanuele II e di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi, che possiamo sperare di capire anche che cosa non funziona nell’Italia di oggi.