Marco revelli, La Stampa 7/3/2010, pagina 32, 7 marzo 2010
8 SETTEMBRE 1943, IL GIORNO DELLA SCELTA
Chi non ha idea di che cosa sia stato l’8 settembre non può comprendere il significato vero della Resistenza. Quel giorno, davvero, «andò giù tutto». Lo Stato si disfece. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità pubblica venne meno. Con la «fuga ingloriosa» del re, della corte e del governo verso il Sud. Con i generali, i colonnelli, i comandanti di reparto che si strappavano i gradi e si mettevano in borghese. Con le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini militari abbandonati. Allora l’«Italia ufficiale» - un’intera classe dirigente, quella che «sta in alto» - crollò. E ognuno - in basso - restò solo, a scegliere.
Significativamente Claudio Pavone - forse il principale studioso dell’argomento - intitola il primo capitolo del suo saggio storico sulla moralità nella Resistenza: «La scelta». Ed è effettivamente questo il termine «focale» - quello che dà il senso dell’intera esperienza resistenziale -: la scelta. il termine che il cattolico Arturo Carlo Jemolo usa quando definisce «singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose» che quel vuoto di potere consegnava a tutti e a ognuno. Ed è lo stesso termine che impiega il partigiano comunista Domenico Arduino quando dichiara: «In quell’8 settembre sono diventato di colpo adulto... da quel giorno ho fatto la mia scelta». Una scelta - bisogna aggiungere - individuale. Meglio: personale. Compiuta, date le circostanze, in solitudine. Senza ordini né norme. Al di fuori di ogni dipendenza gerarchica. E insieme sotto la pressione di una situazione storica eccezionale. Di una schiacciante necessità, secondo una combinazione solo apparentemente contraddittoria di condizioni che, a ragione, ha suggerito a Pavone il riferimento a un doppio concetto - di libertà e di autenticità - che Jean-Paul Sartre aveva evocato a proposito di ciò che, qualche anno prima, era accaduto nella Francia occupata, affermando che, paradossalmente, «mai siamo stati tento liberi come sotto l’occupazione tedesca». Quelle parole - commenta Pavone - «individuano bene questo nocciolo dell’esperienza resistenziale: una scelta tanto più autentica quanto più la situazione obbligava a scegliere, e la posta in gioco poteva essere espressa dalla formula ”piuttosto la morte che…”». Da quella scelta, totalmente «responsabile» perché assunta in piena solitudine e in assoluta necessità - concludeva Sartre - «nell’ombra e nel sangue» nasceva «la più forte delle Repubbliche... senza istituzioni, senza esercito, senza polizia».
Così sarà anche in Italia. In quella data, in cui una parte della storiografia recente ha voluto vedere - con colpevole cecità - solo «la morte della patria», si consumava invece, pur tra contraddizioni, incertezze, cadute, per un certo numero di italiani, anche un «nuovo inizio». Si costituiva - forse per la prima volta nella nostra vicenda storica unitaria -, al di fuori di ogni ufficialità, un’etica condivisa. Intanto perché - l’espressione è ancora di Pavone - «per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in varie forme un’esperienza di disobbedienza di massa». E perché quell’esperienza aveva insieme il carattere della responsabilità piena (quale solo le decisioni libere hanno) e della legittimazione assoluta (quale solo una necessità superiore attribuisce), come ebbe ad affermare, con una chiarezza fulminante, Franco Venturi - un grande storico chiamato in quell’occasione ad auto-riflettere sulla propria azione di protagonista - quando evocò il «senso di necessità / stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». E come ribadirà, immediatamente dopo la liberazione, un altro testimone d’eccezione, Massimo Mila, attribuendo all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, di null’altro fornito che del tuo coraggio di uomo, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato» (Massimo Mila).
Ma è soprattutto Vittorio Foa il protagonista che, con maggior lucidità e sistematicità, esprimerà questo carattere «fondativo» di una libertà praticata individualmente (e in interiore homini) prima ancora di essere conquistata collettivamente (e per tutti). Vittorio Foa che il 23 agosto, uscendo dal carcere dopo 8 anni di reclusione, aveva salutato il proprio compagno di cella con la citazione vichiana «sembravano traversie ed eran in fatti opportunità»; e che pochi mesi più tardi, in uno scritto clandestino sui Quaderni dell’Italia libera dedicato a «I partiti e la nuova realtà italiana», firmato con lo pseudonimo di Carlo Inverni, aveva, come Sartre, «tessuto l’elogio» dell’occupazione tedesca con queste parole: «… da un punto di vista profondo e lungimirante, l’occupazione germanica è un gran bene per l’Italia» perché con essa «è andato infranto il triste privilegio italiano di non aver vissuto, come gli altri popoli europei, integralmente l’esperienza di struggitrice della guerra»; e perché nel contempo - a differenza di quegli altri popoli - esso non deve soltanto combattere e vincere un nemico esterno ben identificato nel suo volto minaccioso e violento, ma dovrà insieme combattere se stesso, il vuoto miraggio dei destini imperiali, l’arido egoismo che rinnega il lavoro comune dei popoli, in una parola il nazionalismo». Il crollo catastrofico dell’8 settembre - era la sua conclusione - «segna l’inizio di un processo rivoluzionario perché ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze».
Questo doppio sentimento - di vuoto e di impegno, di impotenza e di possibilità, di oppressione e di libertà, questo intreccio, appunto di «traversie» e di «opportunità» - lo ritroviamo in molti testimoni. Esemplare Ada Gobetti, che nel raccontare nel suo Diario partigiano il primo apparire dei tedeschi a Torino, alle 4 del pomeriggio del 10 di settembre, mentre sotto i portici all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris distribuiva volantini, descrive le espressioni dei passanti che si affollavano intorno a lei, alla ricerca affannosa di un’informazione, un’indicazione, qualcosa: «Patetici nel loro isolamento, nel loro abbandono: lasciati a se stessi, senz’armi materiali né morali, senza un orientamento, senza una parola d’ordine». Allora, nonostante il suo passato, la sua esperienza di antifascista nella clandestinità, e il lavoro politico intessuto nei quaranta giorni del governo Badoglio, non aveva saputo che dir loro. Ma già un paio di giorni più tardi annota: «Dalla stanchezza opaca che m’ero sentita attorno, dal vuoto che m’era parso di trovarmi, rinascevano le iniziative, le speranze; la volontà di resistenza prendeva forma». Salirà senza indugio, per istintivo bisogno di azione e per scelta concordata con gli altri antifascisti del suo gruppo, in montagna, a Meana, in Val di Susa, dove ha modo di vedere, lungo la ferrovia, i primi sbandati, in preda allo «scoramento più doloroso», soldati non più soldati, che «altro non cercavano ora che sfuggire ai tedeschi, e tornarsene a casa…».
Pubblichiamo un ampio stralcio da «1943 La Resistenza in Piemonte» la lezione che Marco Revelli, docente di Scienza della politica, terrà questa mattina alle 11 al Teatro Carignano di Torino all’interno del ciclo di lezioni «Torino e il Piemonte. Gli anni della nostra storia». L’iniziativa è promossa dalla Regione Piemonte e dal Comune di Torino, ideata e progettata dagli Editori Laterza ed è organizzata dal Circolo dei Lettori in collaborazione con La Stampa e il Teatro Stabile di Torino. Partner dell’iniziativa è Intesa Sanpaolo.