Lucia Annunziata, La Stampa 6/3/2010, pagina 1, 6 marzo 2010
DIETRO LE ELEZIONI UN’ONDA DI DOLLARI
Quanto vale l’Iraq? Quanti investimenti, quante società, quante banche può attrarre oggi?
E quanti finanziamenti pubblici e privati, proprio oggi, alla vigilia delle sue seconde elezioni dopo l’invasione anglo americana del 2003? Per capire l’appuntamento elettorale iracheno di domani, rispondere a questa domanda è forse più utile che parlare della violenza - pur rilevantissima - che ancora una volta accompagna le elezioni.
Se guardiamo infatti solo al giorno per giorno dell’attesa dell’apertura delle urne, molto poco sembra cambiato nel panorama iracheno. Nel 2005, alle prime elezioni dopo la guerra, ci si trovò di fronte a un paese spezzato in tre parti in cui la componente sunnita, penalizzata dalla sconfitta da parte americana di Saddam Hussein, dichiarò il boicottaggio del voto, con conseguente minaccia contro chi vi avrebbe partecipato. La partecipazione del 58 per cento della popolazione alle elezioni, nonostante il clima di violenza diffuso, sancì l’appoggio di una maggioranza alla guerra contro Saddam, e la definizione, anche parlamentare, della divisione del paese secondo le linee etnico-religiose, con sciiti e curdi da un lato, e sunniti dall’altro. Linee approssimative, perché in Iraq gli sciiti non sono una unica forza, anzi; e i sunniti non possono tutti essere considerati nostalgici di Saddam. Approssimative anche in termini religiosi: la componente curda non rientrerebbe infatti in queste linee, così come non vi sarebbero inclusi né i cristiani, nè i pur rilevanti laici.
Alla vigilia elettorale di questo 2010, queste interpretazioni vengono riproposte, in maniera piuttosto acritica: il valore del prossimo voto ci viene spiegato infatti ancora come un test delle relazioni religiose-etniche in Iraq. E le violenze che già si sono scatenate nei seggi, il richiamo dell’esercito Usa a protezione dei votanti, sembrano confermare questo quadro.
Tuttavia, sotto il panorama di sempre, ci sono molte novità. Per capirle, occorre, come si diceva all’inizio, distogliere l’attenzione per un momento dalle urne, e consultare i dati economici. Il più grande cambiamento finora avvenuto nell’ex paese di Saddam, è infatti descritto nel rapporto del 25 gennaio 2010 di fDi Markets, un servizio di monitoraggio degli investimenti del Financial Times, che ha dedicato la sua copertina per la prima volta all’Iraq definendolo fortemente attraente per gli investitori: nel 2009 vi sono affluiti 2.52 miliardi di dollari. «Il paese rimane ad alto rischio» scrive fDi Markets, «ma la tendenza è quella di un generale miglioramento». Rilevante di questa cifra è che non riguarda il settore petrolio, che ha già attratto investimenti talmente ingenti da costituire capitolo a parte. Interessante è che anche al netto del petrolio l’Iraq ha cominciato a generare un impressionante flusso di denaro.
A indicare il nuovo clima è stato un summit sugli investimenti, avvenuto a Washington, in ottobre, dove si è presentato il primo ministro Nouri al Maliki, accompagnato da quasi tutti i membri del suo gabinetto e dai capi delle commissioni investimento di tutte le province irachena. Gli iracheni hanno portato a Washington 750 progetti in 12 settori, e li hanno ascoltati almeno un migliaio di potenziali investitori, fra cui società come BAE Systems, Boeing, Honeywell e Motorola.
Questo incontro, come altri, è ampiamente sostenuto dall’attivismo della Recostruction Task force del Dipartimento di Stato che regolarmente pubblica rapporti sullo sviluppo iracheno. Nel febbraio del 2009, sotto il titolo «Investment Climate Statement - Iraq», il rapporto conferma 2 miliardi di dollari di investimenti nel 2008, specificando una seconda cifra che serve bene a capire un quadro più ampio: nello stesso 2008 l’investimento totale nella regione è stato di 15 miliardi di dollari.
Lo stesso quadro legislativo iracheno si sta adeguando: ad esempio, di recente è stata approvata la liberalizzazione del titolo alla terra. Cioe, investitori stranieri con interessi nel «real estate» e costruzioni possono comprare direttamente terreni, laddove finora avevano sempre bisogno di un partner iracheno. In un paese in cui la titolarità del territorio è una questione politicamente molto scottante, questa liberalizzazione non è di poco conto.
Bisogna infine citare che il Fondo monetario ha appena dato via libera a un superprestito all’Iraq di 3,6 miliardi di dollari. Sostegno destinato alle infrastrutture.
Il paese esce da tre decenni di guerre - la prima è infatti quella degli anni ottanta con l’Iran. un paese che nella sua estrema distruzione equivale a una Bengodi della ricostruzione. vero che fino ad oggi la Banca Mondiale colloca l’Iraq al 152esimo posto su 181 nazioni per capacità produttive e industriali: ma il dato negativo è anche la misura di quanto vertiginosa può essere la sua scalata alla ricchezza.
Insomma, l’Iraq si trova oggi un po’ nelle stesse condizioni del dopoguerra europeo davanti al piano Marshall. E come allora in Europa, niente come un forte afflusso di denaro può dar forma alla politica. Quella irachena, mostra infatti già i segni di aver ben capito cosa sta maneggiando. Dietro il permanere di bombe e atti di violenza, una sorta di classe dirigente sta emergendo, la capacità di programmare un percorso si sta affermando - nonostante il permanere di divisioni.
Se si guarda alle elezioni con queste diverse lenti, si vedranno così emergere alcune novità rispetto al 2005. La prima è che i sunniti che nel 2005 boicottarono il voto, oggi partecipano all’appuntamento elettorale, e con convinzione. Il sunnita Allawi è uno dei grandi protagonisti di questa competizione, e il principale sfidante del primo ministro Al Maliki, sciita. La determinazione dei sunniti a partecipare è ben raccontata da uno dei più rilevanti incidenti politici di queste settimane: richiamandosi alla legge voluta dagli Usa dopo la guerra che chiede la de-baathizzazione del paese, Al Maliki ha escluso dalle liste molti sunniti. Il colpo di mano ha suscitato grande tensione, ma i sunniti non si sono ripiegati sul boicottaggio.
Altra grande novità elettorale, è che le liste principali sono «miste», aperte cioè a tutte le componenti religiose ed etniche, con cristiani, sunniti, sciiti e laici insieme. Una evidente indicazione che l’establishment guarda a un superamento delle divisioni al di là degli accordi elettorali fra gruppi.
Vedremo. Domani andranno alle urne 19 milioni di iracheni, su una popolazione di 30 milioni di abitanti. Voteranno in 10mila seggi, per scegliere, su 6200 candidati, 325 parlamentari. Fra loro ci sono moltissimi estremisti, teste calde, fanatici religiosi. Ma segni di evoluzioni del paese, sono innegabili.