Emiliano Morreale, Il Sole-24 Ore 7/3/2010;, 7 marzo 2010
SCENEGGIATORE CON L’ARIA DEL CRONISTA - «A
suo modo era un pessimo sceneggiatore: non aveva pazienza. Era un vero scrittore, un grande artista. Insieme agli altri stava bene un quarto d’ora, per dare qualche idea, qualche illuminazione; ma poi si annoiava e se ne andava. Non ha mai fatto il vero mestiere dello sceneggiatore. Però ha dato moltissimo al cinema: della sua personalità è pieno tutto il cinema italiano». Dette da un collega di proverbiale cattiveria come Rodolfo Sonego, queste parole su Ennio Flaiano suonano come un deciso elogio.
E certo una specie di "Flaiano’s touch" attraversa il cinema italiano dal dopoguerra al boom, in titoli diversi come Roma città
libera ( splendido ritratto notturno della Roma del ’46) e La decima vittima di Petri, apologo fantascientifico all’Eur da un romanzo di Robert Schekley.
I suoi copioni si trovano spesso in una zona intermedia tra il neorealismo e la commedia all’italiana, i due "modi" più celebri del cinema italiano, rispetto ai quali Flaiano rimase marginale. Nelle commedie degli anni 50, contribuì alla transizione dall’uno all’altra, in alcuni film di Emmer ( Parigi è sempre Parigi ), Blasetti ( Peccato che sia una canaglia , La fortuna di essere donna ), in vari film a episodi e nei tentativi di calare Totò in un fondo di amaro realismo sociale ( Guardie e ladri, Totò e Carolina ).
Lo stereotipo tramanda però anche un Flaiano vittima del cinema. Un potenziale grande scrittore (come dimostrava l’unico romanzo,
Tempo di uccidere ) che si disperde in un geniale lavoro giornalistico e in un’opera di sceneggiatore, a sei-otto-dieci mani come usava allora.
Il simbolo di questo rapporto controverso è ovviamente la collaborazione con Fellini. I due si erano sfiorati verso la fine degli anni 30, al tempo delle riviste romane di Rizzoli: Flaiano lavorava al raffinato «Omnibus» di Leo Longanesi, Fellini al settimanale satirico «Marc’Aurelio». Si ritrovarono fin dagli esordi di Fellini regista nel ’50 ( Luci del varietà
con Lattuada, poi Lo sceicco bianco ) e raccontarono con I vitelloni una provincia che entrambi conoscevano bene, mentre per La strada o Il bidone Flaiano ebbe soprattutto la funzione di anticorpo al lirismo del regista. Ma sono La dolce vita e 8 1/ 2i
film che recano il maggior segno di Flaiano,nell’impianto e in certi dettagli.
Forse proprio per questo, dopo 8 1/
2 i contrasti tra i due esploderanno.
Leggenda vuole che al-l’origine ci fosse il viaggio a Los Angeles per gli Oscar, con Fellini e il produttore De Laurentiis in prima classe e Flaiano offeso di essere spedito in economica. Forse c’entra il crescente interesse felliniano per gli archetipi junghiani e la magia. Ma forse, la fine del sodalizio aveva anche radici storiche. Era un momento in cui scrittori, registi e sceneggiatori diversissimi reagivano con sensibilità irripetibile alle mutazioni del paese: Arbasino o Monicelli, Bianciardi o Sonego, Volponi o Age e Scarpelli... Così si erano incontrati, con splendidi frutti, anche Fellini e Flaiano, che ora si allontanavano. (In quegli stessi anni, Flaiano incrocerà addirittura Antonioni, assai più lontano da lui, scrivendo La notte). Ma lo stereotipo di Flaiano "vittima del cinema" dimentica un lato essenziale. E cioè la sua passione di spettatore, e di geniale critico attivo fin dagli anni 30. Flaiano apparteneva alla prima generazione di appassionati, cresciuti col muto e poi con la Hollywood del primo sonoro. Severissimo verso il cinema italiano del fascismo, il giovane Flaiano amava del cinema americano le potenzialità, potremmo dire, di evasione etica e pedagogica: non solo il realismo di Vidor e di Ford, ma gli horror di Boris Karloff e i balli di Fred Astaire. Come scriverà poi, in tempi di neo-realismo trionfante: «Quel poco di morale che m’aiuta a vivere l’ho imparata al cinematografo. nelle pellicole che ho visto trionfare l’amore, la giustizia e sprofondare l’iniquità, premiare il Buono e proteggere la Vedova. Ma questo sarebbe assai poco se non avessi anche visto la vita assumere un ordine formale, strettamente imbrigliata dalle leggi drammatiche. dunque sullo schermo che la vera vita si svolge, azioni e reazioni si spiegano in ombre e luci e le filosofie si illuminano in ottimi esempi e tutto si svolge come in un sogno prestabilito ». Nel dopoguerra invece, la sua attività di critico sul «Mondo» sarà anche un indiretto osservatorio sull’Italia. Magari attraverso film "bassi" come ’A madunnella, Monastero di Santa Chiara, La mano della morta ; o I pompieri
di Viggiù , film-rivista che gli sembrava assai più "neorealista", seppur involontariamente, di Rossellini e De Sica. In quei film iper-popolari lo scrittore trovava, meglio che altrove, i segni del tempo e di un’Italia della quale si sentiva, ed era, interprete ed estraneo.
A chi gli chiedeva se fosse più giornalista o scrittore: «Vorrei essere un cronista» rispondeva. E dalla metà degli anni 60, come dichiarò, nell’Italia e nel suo cinema era coinvolto sempre meno.