Marco Del Corona, Corriere della Sera 05/03/2010, 5 marzo 2010
GLI AMICI CINESI DI AHMADINEJAD
Amici, alleati. Iran e Cina partecipano alla gran sciarada diplomatica del programma atomico e delle sanzioni dividendosi i ruoli: Teheran l’imputato, Pechino l’avvocato. Interessi economici bagnati nel petrolio, interessi strategici e tic difensivi rispetto all’Occidente costruiscono un legame il cui costo politico e diplomatico la Repubblica popolare comincia a sentire. Perché una Cina che ormai, non solo all’Onu, si espone sul palcoscenico globale non vuole che il rapporto con Teheran arrivi a complicarle la vita, soprattutto se – tra ripicche protezionistiche, cambio del renminbi, Taiwan, Google, Dalai Lama’ l’intesa con l’America di Barack Obama è agitata. Sul Global Times, che di solito non disdegna le vampate di un nazionalismo anche acre, uno studioso dell’Accademia delle Scienze, Yin Gang, ha ammesso che «la Cina è amica dell’Iran. Ma anche tra amici si parla di principi. La Cina non può non tenere conto delle richieste della comunità internazionale».
Le linee di fondo però non sono in discussione. Cina e Iran, appunto sono amici, alleati. Quasi parenti, addirittura. Sia la Persia sia l’Impero di Mezzo lamentano il trattamento patito tra Ottocento e Novecento da parte delle potenze coloniali. E in fondo sia Mao Zedong sia Ruollah Khomeini sono due leader rivoluzionari. Scrive nel suo blog un ex ambasciatore in Iran e ora ricercatore, Hua Liming, che «i nostri Paesi sono entrambi in via di sviluppo, con problemi analoghi. Abbiamo sistemi sociali e ideologie diverse ma possiamo rispettare le scelte altrui senza intervenire negli affari interni. Le nostre diplomazie sono autonome, non vogliamo farci controllare. Le risorse iraniane sostengono il boom cinese, tecnologia e prodotti cinesi aiutano la crescita iraniana. Vantaggio reciproco, doppia vittoria».
L’Iran rappresenta il terzo fornitore di petrolio della Cina, dopo Arabia Saudita e Angola, è suo l’11,4% del greggio che arriva nella Repubblica popolare. Nel maggio del 2009 i due governi hanno siglato una serie di intese, dall’industria mineraria allo sviluppo del sistema ferroviario in Iran, per 17 miliardi di dollari. Tuttavia la partita al Consiglio di sicurezza sta costringendo la Cina a rivedere le forme della sua relazione con gli ayatollah.
Secondo un rapporto dell’International Crisis Group pubblicato il 17 febbraio, l’atomo di Teheran e la discussione sulle sanzioni hanno creato a Pechino «un dibattito nel circolo della politica estera circa il pericolo dello sviluppo del nucleare iraniano e le sue implicazioni per la politica della Cina». Sono affiorate due scuole di pensiero. Una «ritiene che il comportamento di Teheran può mettere a repentaglio la pace e la stabilità nel Medio Oriente e dunque danneggia gli interessi cinesi nella regione» e perciò tenterebbe di mediare tra gli ayatollah e gli Usa.
Una seconda linea pensa invece «che le provocazioni nucleari iraniane possano andare avanti senza gravi conseguenze e che gli Stati Uniti eviteranno ogni confronto militare». Questa posizione rispecchia gli interessi delle grandi aziende petrolifere che si spartiscono esplorazioni e sfruttamento dei campi petroliferi nella Repubblica islamica. la triade ben nota a mercati e cancellerie, con la Sinopec al lavoro in Iran dal 2001, la Cnpc e la Cnooc. E non c’è solo il petrolio. Nei primi 8 mesi dell’anno scorso l’export iraniano in Cina ha contato per oltre 2 miliardi di dollari, +26,4% sul 2008.
A Pechino non è un mistero che i round di sanzioni Onu contro Teheran (luglio 2006, marzo 2007, marzo 2008), combinate con l’assenza commerciale degli Usa e con le misure punitive bilaterali di altri Paesi, abbiano lasciato campo libero alla Cina che ne ha approfittato per ispessire frequentazioni e legami, al punto che Washington ha più volte indagato se i contratti cinesi violino le prescrizioni dell’Onu.
Iran e Cina tengono duro, Teheran ha bisogno della tecnologia cinese, visto che gli impianti non risultano all’altezza e, anche sul fronte dell’estrazione, sono obsoleti (l’Aiea, l’agenzia atomica dell’Onu, ha calcolato che per rilanciare le infrastrutture in campo energetico nel suo complesso occorreranno da qui a 25 anni 160 miliardi di dollari).
L’intrico di interessi economici non spiega da solo l’approccio cinese al caso Iran-Onu. C’è una decisiva componente geopolitica, in quella che – tra Asia centrale e Medio Oriente’ l’agenzia Xinhua ha definito una grande «periferia» della Repubblica popolare. Gli analisti dell’International Crisis Group sostengono che «forti relazioni bilaterali aiutano a controbilanciare il dominio Usa in Medio Oriente e a potenziare il potere contrattuale della Cina». La quale, poi, «non vede il programma nucleare iraniano come una minaccia immediata», ovvero non crede che sia necessariamente votato alla sfera militare. E anche se i cinesi «concordano che la Bomba iraniana sarebbe contraria agli interessi di Pechino, soprattutto se scatenasse una corsa regionale ad armarsi, non ritengono che questo obblighi la Cina a fare passi immediati». Tanto più che, come un generale dell’Università nazionale della Difesa, Zhang Zhaozhong, ha scritto a fine 2009, «la tecnologia di arricchimento dell’Iran è assai primitiva».
La Cina contesta all’Occidente e soprattutto agli Stati Uniti la responsabilità dell’escalation della tensione e si irrigidisce di fronte all’ «interferenza». La non interferenza, che per la Cina riguarda «questioni interne» come Tibet e Taiwan, è un credo globale che la Cina applica sistematicamente e le sanzioni, ai suoi occhi, ne contraddicono lo spirito. Lo stesso vale ovviamente per la simpatia occidentale per le proteste di piazza, che Pechino segue inquieta, con una serie di suggestioni che oscillano fra gli studenti di Tienanmen e la Rivoluzione culturale. In un editoriale, il Quotidiano del popolo ha ammonito che se «l’Occidente non cede, la questione del nucleare iraniano peggiorerà per tutti». Una durezza che si abbina alle critiche per il doppio standard contestato agli Usa, tolleranti con l’atomo israeliano, indiano e pakistano, non con quello iraniano e nordcoreano.
La Cina però non vorrebbe trovarsi isolata al Consiglio di sicurezza, ora che la Russia pende verso le posizioni occidentali. A Pechino sono passati il vice di Hillary Clinton, James Steinberg, e il consigliere per l’Asia, Jeffrey Bader, e con loro si sarà parlato di Iran. Ma le buone relazioni che la Cina ha con molti in Medio Oriente offrono qualche ulteriore elemento per affinare la linea di Pechino all’Onu. La scorsa settimana erano a colloquio con i leader comunisti Moshe Yaalon e Stanley Fischer, rispettivamente vicepremier e governatore della banca centrale di Israele. Hanno spiegato ai cinesi come Teheran stia sviluppando un programma atomico militare, secondo la stampa dello Stato ebraico. Indipendentemente da quello che poi a Pechino decideranno di fare, i dirigenti cinesi sono stati ad ascoltare.
Marco Del Corona