Enzo Bettiza, La Stampa 5/3/2010, 5 marzo 2010
LA SECONDA VITA DI HERTA MLLER
Nella seconda metà del secolo scorso avevo soggiornato a lungo in Romania, incontrandovi diversi personaggi indecifrabili o quantomeno ambigui, fra i quali per ben tre volte lo stesso Conducator Ceausescu. Ma nessuno, nemmeno di quei pochi che osavano dichiararsi «liberali», s’era mai dato la pena di attirare la mia curiosità sull’esistenza di una scrittrice di lingua tedesca, ignota al grande pubblico, che firmava Herta Müller i suoi primi componimenti mutilati dalla censura. A Bucarest, e soprattutto nel calderone multietnico del distretto di Timisoara, era meglio tacere degli appestati «fascisti» svevi o «irredentisti» magiari. La Müller proveniva dall’antico insediamento contadino degli svevi che, assieme ai sassoni, costituivano da secoli nelle ancestrali regioni romene il nucleo culturalmente più esposto delle due comunità tedesche falcidiate, dopo la seconda guerra, da Stalin e poi oppresse e sfruttate come merce di scambio dal regime di Ceausescu: fra gli Anni Sessanta e Settanta lo Stato romeno svendette alla Germania Occidentale una moltitudine di sudditi tedeschi per la taglia di 12 mila marchi a testa.
In seguito, dovevano purtroppo sfuggire alla mia attenzione alcune rare opere della Müller, uscite di sghembo in Italia e, se non erro, mai segnalate con lo spazio che avrebbero meritato nelle pagine nobili dei maggiori quotidiani. Confesso di averne appreso il nome solo nell’ottobre 2009. Le venne conferito allora a sorpresa il Nobel con la motivazione, a mio parere, titubante, volutamente sfocata, che lodava la premiata per «la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa con cui ha rappresentato il mondo dei diseredati».
Quali «diseredati»? Perché «diseredati»? Dove e come «diseredati»? Adesso che ho appena finito di leggere, per la prima volta, uno scritto della Müller, devo dire che una risposta invitante e più esatta mi è giunta subito dal titolo tradotto con precisione esplicativa dal tedesco: Cristina e il suo doppio. Ovvero ciò che (non) risulta nei fascicoli della Securitate (Sellerio editore, Palermo, 296 pagine 13 euro). Dunque, cominciamo ad appurare fin dalla copertina che qui si evocano insieme, sinistramente giustapposte, la Romania comunista e la Romania postcomunista; che la scrupolosa rievocatrice è una cittadina ex romena d’etnia germanica; che i «diseredati» in questione, presenti nella «franca prosa» della cronista, non sono ombre derelitte di un Terzo Mondo afroasiatico, bensì civilissimi e vicinissimi europei già perseguitati e oggi ancora insidiati dagli epigoni riciclati di quella che fu una delle strutture segrete meglio attrezzate, più elaborate e onnipervasive del mondo comunista.
La famigerata Securitate, per l’appunto, protagonista centrale nei ricordi e negli incubi della Müller. Essa fu qualcosa di assai più complesso di un’ovvia polizia politica d’un potere totalitario: fu un vero e proprio esercito del terrore, uno Stato nello Stato, inesorabilmente devoto fino al Natale 1989 alla volontà del capo supremo, l’ex ciabattino olteno Nicolae Ceausescu. I precedenti storici di questa capillare milizia assassina possiamo ritrovarli nell’Opricninà di Ivan il Terribile, la Ghepeù di Stalin, le SS di Hitler. Con in più un tocco fascistoide indigeno, le Guardie di Ferro di Corneliu Codreanu. Spiega la Müller, con sarcastico distacco, come in quella onnipresente piovra poliziesca il Medioevo si congiungeva alla più sofisticata modernità tecnologica: «Non andavamo affatto all’idea che tutto ciò che dicevamo, persino in camera da letto, venisse intercettato. Considerata l’estrema miseria della Romania, non credevamo che i servizi potessero permettersi tecniche d’intercettazione così evolute. Pensavamo che, tutto sommato, non fossimo degni di un tale dispiegamento di mezzi».
Le sessanta pagine di questo libretto, incalzante e rivelatore, si leggono col fiato sospeso, ma direi che non sia possibile sistemarlo nella provocante categoria dei libelli letterari. Il dettato è molto più semplice, essenziale e diretto di quello d’un pamphlet classico: è in sostanza uno scarno documento di denuncia autobiografico e collettivo insieme. L’angolatura da cui la scrittrice bilingue nata nel 1953 a Nitzkydorf, villaggio rustico del Banato, circondario Timisoara, racconta le sue disumane e incredibili esperienze è, apparentemente, ristretta alla persecuzione che ha subito di continuo e di persona per quasi tre decenni: prima in Romania dal 1983, poi nella stessa Germania, dove a partire dal 1987 vivrà da rimpatriata tedesca o sospetta semitedesca, ottenendo comunque alti riconoscimenti come il Premio Kleist e il Premio Adenauer. Sarà però il Nobel del 2009 a consacrare definitivamente Herta Müller quale notevole romanziera d’idioma tedesco e afflato europeo, lasciando intendere, sia pure a denti stretti, che ai particolari della sua biografia frustrata e della sua piccola Heimat distrettuale, oppressa e tormentata dal nazionalcomunismo romeno, essa ha saputo conferire il significato universale di una poetica resistenza al Moloch totalitario in quanto tale. Non solo. Il Nobel al tempo stesso doveva cancellare completamente, con un colpo di spugna internazionale, l’ombra delle calunnie diffuse contro la scrittrice, diffamata come confidente ausiliaria della Securitate dalla medesima Securitate e dai suoi epigoni attivi, ancora dopo il crollo del Muro, in Romania e perfino in Germania sotto nuove spoglie «europeistiche».
questa la ragione per cui il resoconto dato alle stampe prende il titolo inquietante di Cristina e il suo doppio. Tale duplice «Cristina» era lo pseudonimo in cifra che la Securitate aveva dato alla Müller nel fascicolo segreto che la riguardava e che lei, nei suoi travagliati ritorni in Romania dopo la fine del regime, riesce, dopo infinite peripezie, a ritrovare «abborracciato» e «rielaborato». Lo Sri, cioè il servizio d’informazione postcomunista, erede con copertura «democratica» di quello d’epoca ceauseschiana, aveva eliminato dal fascicolo tutti i dati utili a incriminare la precedente dirigenza della Securitate infiltrata, con i suoi uomini, in una sorta di trasformismo totale, nei gangli più nevralgici della nuova economia di mercato. Da poche parole rimanipolate del fascicolo, si riesce a evincere tuttavia che la recalcitrante sveva, dopo aver rifiutato di lavorare per gli «organi», era stata scissa in due persone diverse. Una «Cristina» vi è considerata inguaribile nemica dello Stato. Quindi, per infangarla e metterla in cattiva luce, i falsari della sezione «D» (disinformazione) fabbricano una seconda «Cristina» iscritta al partito, di stretta osservanza comunista, spia priva di scrupoli. Ripensando agli anni in cui la Securitate la marchiò, per vendetta, con la più perfida delle menzogne, la memorialista Müller osserva: «Più insopportabile della proposta di reclutamento con la minaccia di morte fu il fatto di passare per un’informatrice proprio per essermi negata ad assumere un tale ruolo». Ancora nel 2008, alla vigilia del Nobel, la Müller concludeva il gelido e tremendo referto personale con le seguenti parole: «Dovunque arrivassi, mi sono trovata a dover convivere con questo mio doppio. Benché io abbia scritto sempre e soltanto contro la dittatura, lui continua fino ad oggi a battere la sua strada per conto proprio. Si è reso autonomo, seguita a vagarmi intorno come un fuoco fatuo. Per quanto tempo ancora?». Speriamo che il prestigioso riconoscimento giuntole l’anno dopo da Stoccolma non solo per ragioni letterarie, ma anche morali, abbia reso alfine superflua la desolata domanda.