Maurizio Maggi e Giovanni Steve, L’espresso 11/3/2010, 11 marzo 2010
QUANTO ITALIANA LA FIAT?
Sergio Marchionne lo ha ripetuto ancora una volta lo scorso 10 febbraio. Commentando il mancato rinnovo degli incentivi per la rottamazione, l’amministratore delegato della Fiat ha tagliato corto: "Guardiamo al futuro, lavoriamo sul mercato, andiamo fuori dall’Italia".
Erano passati pochi giorni da quando il gruppo torinese aveva annunciato di voler chiudere definitivamente lo stabilimento di Termini Imerese: 1.400 dipendenti e altri 2 mila lavoratori dell’indotto. A fine 2011, dopo 41 anni di attività, l’impianto siciliano cesserà di funzionare. E i lavoratori rimarranno senza impiego. Quanto alla Lancia Ypsilon, che si produce a Termini, Marchionne lo ha già detto: la nuova versione verrà realizzata in Polonia, inizio dei lavori previsto proprio per il 2011.
Si andrà così a rimpolpare la lista di utilitarie fatte all’estero, confermando che la volontà di Fiat, al di là delle sbandierate intenzioni sulla valorizzazione del made in Italy, è quella di diventare sempre di più un gruppo internazionale. Prendiamo la nuova 500. Due anni e mezzo fa, al momento del lancio sul mercato, fu presentata al pubblico con una pubblicità televisiva dai toni fortemente nazionalisti. Fotografie che tentavano di riassumere l’ultimo mezzo secolo dalla nascita Repubblica: dai discorsi di De Gasperi alle vittorie di Valentino Rossi, e una scritta: ’Appartiene a tutti noi’. Peccato che l’auto italiana per eccellenza venga interamente prodotta a Tychy, Polonia. Ci sono poi casi più complessi. La Grande Punto, prodotta a Melfi, viene citata come esempio di made in Italy. Andando a guardare le parti che la compongono, però, le cose non stanno proprio così: su 50 fornitori, più della metà (26) sono stranieri. Spiega Giorgio Airaudo, per otto anni segretario della Fiom di Torino: "Per fermare il processo di delocalizzazione serve un governo forte, che la vincoli a mantenere la produzione in Italia attraverso progetti innovativi, come quello dell’auto ibrida". Progetti su cui il governo non sembra voler puntare. Al contrario, quando il Lingotto ha ufficializzato l’acquisto di Chrysler, il ministro per lo Sviluppo Economico, Claudio Scajola, ha definito l’accordo positivo per tutto il settore dell’automotive italiano. Per capire come è cambiato il rapporto tra la Fiat e l’Italia negli ultimi anni, ’L’espresso’ ha raccolto dati su produzione, occupati e componenti usati per realizzare le più diffuse auto del Lingotto. Il risultato mostra un quadro piuttosto diverso rispetto a quello immaginato dal ministro.
Occupazione Per spiegare il processo di delocalizzazione, Marchionne fa spesso ricorso al concetto di produttività. Nel 2009, in Italia, i 21.900 operai nei cinque stabilimenti Fiat hanno realizzato 645 mila macchine. A Tychy, per produrne 600 mila sono bastate 6.100 persone. I sindacati ricordano che molti stabilimenti italiani hanno subito la cassa integrazione, mentre in Paesi come la Polonia, dove peraltro gli ammortizzatori sociali non esistono, si è lavorato a pieno regime tutto l’anno, sabato e domenica compresi. Ma il Lingotto sembra ormai aver intrapreso questa strada in modo deciso, e non dà l’impressione di voler tornare indietro. Per capirlo basta guardare i dati di Fiat Group Automobiles, la società che all’interno del gruppo torinese si occupa della produzione di autoveicoli, fatta eccezione per le lussuose Ferrari e Maserati. Negli ultimi 10 anni i dipendenti italiani sono calati notevolmente. Se nel 2000 ogni 100 assunti 66 lavoravano in Italia, ora il rapporto è di 57 su 100. Per vedere l’altro lato della medaglia bisogna andare all’estero. Restiamo sempre a Tychy. Quattro anni fa l’impianto polacco dava lavoro a 3.250 persone. Oggi quel numero è praticamente raddoppiato. Il caso di Tychy è il più evidente, ma osservando le mosse del Lingotto in giro per il mondo la tendenza appare generalizzata. In Brasile, dove Fiat ha il suo stabilimento più grande, negli ultimi quattro anni i dipendenti sono passati da 9.350 a 10.700. A Cordoba, in Argentina, la società ha riavviato nell’estate del 2008 un impianto che dà lavoro a 1.500 persone e conta di occuparne 4.200 nei prossimi anni. A Bursa, in Turchia, i dipendenti negli ultimi quattro anni sono passati da 4.400 a 6.900. Ci sono poi le joint venture in India e Francia, gli assemblaggi in Ungheria e le nuove produzioni di Touluca, in Messico, dove dovrebbero nascere le 500 dedicate al mercato americano. Messi insieme, i pezzi del puzzle descrivono un gruppo sempre meno italiano. E sempre più presente nei mercati emergenti, dove il costo del lavoro è inferiore e così anche i diritti sindacali.
Produzione L’effetto risulta evidente se si guardano i dati sulla produzione. Dieci anni fa dagli stabilimenti italiani marchiati Fiat uscivano 1,42 milioni di auto, nel 2009 solo 650 mila. Il calo è stato pari a oltre il 50 per cento, ma ciò che più colpisce è il confronto con gli altri Paesi europei. Le statistiche della Oica (Organizzazione internazionale dei costruttori di automobili) mettono in evidenza la debolezza dell’industria italiana delle quattro ruote. Nel 2008 (ultimi dati disponibili) il primo produttore europeo di automobili è stata la Germania, dalle cui fabbriche sono uscite 5,5 milioni di vetture. Al secondo posto la Francia con 2,1 milioni, poi Spagna (1,9) e Gran Bretagna (1,4). L’Italia, dove Fiat rappresenta il 98 per cento della produzione, nel 2008 aveva visto uscire dalle proprie fabbriche 659 mila vetture. Più o meno come Turchia, Belgio e Slovacchia. Con la differenza che in questi Paesi non ci sono produttori del calibro di Fiat, gruppo che ora, dopo la fusione con Chrysler, è diventato il sesto al mondo per vetture prodotte.
La caduta della produzione italiana dovrebbe arrestarsi nei prossimi anni, almeno stando ad ascoltare le promesse del Lingotto. Mentre comunicava la chiusura definitiva di Termini Imerese, Marchionne ha infatti annunciato che l’obiettivo del gruppo è arrivare nel 2012 a produrre in Italia 900 mila automobili. Un risultato che sarà possibile raggiungere solo se il Lingotto manterrà la promessa di portare a Pomigliano la Panda ora prodotta in Polonia. Intanto, mentre 30 mila lavoratori italiani del gruppo resteranno in cassa integrazione fino al prossimo 5 marzo, Fiat continua ad allargare la sua presenza fuori dai confini nazionali. L’ultimo accordo è stato firmato con la russa Sollers. L’11 febbraio, alla presenza del premier russo Vladimir Putin, Marchionne ha annunciato la creazione di una joint venture paritetica per la produzione, su una nuova piattaforma Fiat-Chrysler, di ’Suv e autovetture del segmento C e D’. Tra i modelli del segmento C e D c’è, tra le altre, la Croma, attualmente prodotta nello stabilimento italiano di Cassino. Fiat e Sollers puntano a sfornare 500 mila veicoli all’anno entro il 2016, non molti meno rispetto a quelli che oggi escono dalle fabbriche italiane (650 mila).
Componentistica Ma c’è un altro aspetto rilevante: l’accordo prevede che almeno il 50 per cento dei componenti utilizzati per le nuove auto, compresi motori e cambi, siano prodotti in Russia. Una clausola che suona come una condanna alla disoccupazione per buona parte dell’indotto Fiat di Cassino. Il fatto che il sedile della nuova Croma dovrà essere prodotto in Russia non significa necessariamente che cambieranno i nomi dei fornitori. A variare potrebbe essere solo la nazionalità dei dipendenti. Prendiamo ad esempio la Grande Punto prodotta a Melfi. Sui circa 50 fornitori ufficiali di componenti, oltre la metà (26) hanno nomi stranieri. Si va dagli pneumatici della francese Michelin ai sistemi frenanti della tedesca Bosch, dai finestrini della spagnola Ficomirrors ai parabrezza made in China della Fuyao. Quasi tutte queste società hanno stabilimenti in Italia, con dipendenti italiani che lavorano accanto agli impianti d’assemblaggio della Fiat. Una strategia seguita da tutte le grandi case d’auto al mondo, seguendo la metodologia del ’just in time’. Che, tradotto, significa: la merce in magazzino la tiene il fornitore, pronto a servire con tempestività il cliente. Se dunque l’accordo tra Fiat e Sollers prevede che almeno la metà dei componenti vengano prodotti in Russia, è probabile che anche gli attuali fornitori di componenti trasferiscano le proprie produzioni vicino agli Urali. O in Serbia, dove Fiat, insieme all’azienda di stato Zastava, assembla attualmente la Punto e mira a realizzare una nuova auto low cost. Nei Balcani la produzione dovrebbe arrivare a 200 mila unità all’anno, un quarto in più rispetto alle Fiat che verranno prodotte in Cina, dove il Lingotto, a luglio dell’anno scorso, ha creato una joint venture paritetica con la Guangzhou Automobile Group. Obiettivo: produrre, entro la seconda metà del 2011, 140 mila vetture e 220 mila motori all’anno.
In generale sono tutti i fornitori a guardare con attenzione le mosse del Lingotto. Che non fa mistero delle sue esigenze: "Chiederemo alla nostra supply chain una presenza flessibile e competitiva in tutti i mercati", ha fatto sapere dalla pagine del ’Sole 24 Ore’ Gianni Coda, responsabile degli acquisti del Lingotto. Insomma, chi non riesce a seguire il cliente in Cina, India o Polonia, rischia di perdere la commessa. Chi ce la farà? Il compito risulterà più facile per le multinazionali, già in grado, per mentalità e potenza economica, di aprire stabilimenti da una parte e chiuderne da un’altra. La Johnson Controls si sta attrezzando in questo senso. Dopo aver aperto due nuovi impianti in Slovacchia e Polonia, la multinazionale americana che per Fiat produce sedili e pannelli delle portiere ha avviato la procedura di mobilità per 25 operai impiegati nella fabbrica di Rocca d’Evandro (Caserta). Se i dipendenti della Johnson Controls temono che questo sia l’inizio della fine, ad Arzano (Napoli) la fine è arrivata due anni fa. Lì si producevano le cinture di sicurezza per Punto, Lancia e Alfa Romeo. A realizzarle erano un centinaio di operai della Kss, gruppo inglese che da un giorno all’altro ha chiuso lo stabilimento. "Le cinture per la Fiat le producono ancora, ma in Romania", dice sconsolato Antonio Tammaro, coordinatore provinciale dello Slai-Cobas.
Per qualcuno, però, la soluzione esiste. Spiega Lino Lamendola, responsabile della Fiom nella zona Ovest di Torino, la più importante per l’indotto di Mirafiori: "Se si continua a competere sui costi è la fine. Ma se si decidesse di puntare sull’auto ibrida e sfruttare il know how delle imprese torinesi, la Polonia non ci farebbe più paura".