Andrea Scanzi, La Stampa 4/3/2010, pagina 36, 4 marzo 2010
LE ROCKSTAR IMMORTALI SONO SOLO QUELLE MORTE
Caddero tutti, come ultimi passeri sul ramo. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison. Accadde tra la fine del ”70 e l’inizio del ”71. Avevano tutti 27 anni, la chiamarono «la maledizione della J». Ciò che Davide Lajolo, parlando di Cesare Pavese, ha chiamato «il vizio assurdo», ha colpito molti angeli dalla pelle troppo sottile della musica: Brian Jones, Nick Drake, Ian Curtis, Tim e Jeff Buckley. Anche di loro parla Giulio Casale nello spettacolo La canzone di Nanda, forse la cosa migliore fatta negli ultimi anni da un musicista under 40 a teatro. Il suicidio diviene, qui, soggiacere alla «grace under pressure». La grazia sotto pressione, per Hemingway, era la corrida: l’unico luogo dove si può comodamente contemplare la morte, circondati dalla più abbagliante bellezza.
«Guardare la corrida - ricorda Casale - è come guardare la guerra da vicino, da spettatori privilegiati, perché la corrida richiede più coraggio, più abilità e di nuovo più coraggio di quanto non richieda qualunque altra cosa. La corrida è l’unica arte in cui l’artista è in pericolo costante di morte». Grazia sotto pressione, come il suicidio: «E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio, e le illusioni disperse». Una visione nichilista a cui Kurt Cobain fu fedele fino all’evaporazione: «Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente».
Ora che sono passati quarant’anni, cosa è rimasto del «Club dei 27»? A parte gli inediti postumi, i dubbi sulla dinamica delle loro morti, i pellegrinaggi ormai turistici a Père Lachaise e le molte, troppe rievocazioni di questi giorni? Poco, pochissimo. Se il ”68 fu l’anno della protesta e il ”69 quello del sogno, il ”70 sancì già la disillusione. Bob Dylan incise il suo disco più brutto (Self Portrait), Woodstock era già un ricordo per reduci e perfino gli incendiari Led Zeppelin, proprio nel ”70, sentirono il bisogno di rifiatare, rifugiandosi in un cottage gallese. Il 1970 fu l’ultimo valzer del rock, per parafrasare il live testamentario di The Band. Le «tre J» posero la pietra tombale sulle loro parabole e sul genere che avevano elevato e sdoganato, incarnato e brutalizzato.
Oggi sembrano passati secoli. Qualsiasi reunion, a prescindere, fa gridare al miracolo. I Rolling Stones ricevono ancora peana. I rinati Deep Purple incantano per mancanza di avversari. Perfino i concerti di Spandau Ballet ed Europe, gente che suonava già malissimo negli Ottanta, ricevono consensi trasversali. Ogni volta che negli ultimi anni è nato qualcosa di buono, la critica si è affrettata a discostarlo dal rock a partire dalla definizione: il brit pop di Blur e Oasis, il trip hop dei Massive Attack, il country rock di Ryan Adams, il romantic rock di Damien Rice e David Gray. Nessuno faceva rock e basta. Neanche adesso, se è vero che i nomi migliori - Radiohead, Sigur Ros, Wilco - suonano qualcosa di riconducibile solo in minima parte agli stilemi dei Sixties.
L’unico nome spendibile è quello del sessantenne Bruce Springsteen, che sta al rock come Clint Eastwood al cinema: ultimi partigiani di un tempo, e un’arte, che declinano. Eppure anche Springsteen nasce derivativo (il suo primo disco è del ”73) ed è caduto e rinato più volte: ora acustico, ora epigono Pete Seeger, ora - semplicemente - frontman immortale.
E in Italia? Beh, il rock non c’è mai stato, se non qualcosa di Eugenio Finardi e poco altro (quasi sempre di nicchia). Vasco copia Vasco che «copiava» i classici. Ligabue, che più volte si è scagliato contro lo stereotipo del rocker dannato e morto giovane, copia Ligabue che «copiava» i classici. Francesco Renga ieri faceva rock (più o meno) e ora le romanze sanremesi. Pure i Litfiba si sono riuniti ma c’è un limite anche ai revival. Tutto è già sentito e stancamente suonato. Un mezzo strazio. Quarant’anni fa, gli ultimi passeri caddero dal ramo: ora è caduto direttamente l’albero.