Francesco Specchia, Libero 3/3/2010, 3 marzo 2010
OPERAI COME FIGLI, IL VENETO DEI PARON SUICIDI
La locomotiva d’Italia ha triturato un altro cuore grande.
Si conta ancora un suicidio, acceso dal rimorso d’impresa, nel Nordest: stavolta è un artigiano cinquantenne di origine croata ad essersi impiccato nella cantina di casa sua, lo sgualcito nido d’affetti dove viveva assieme a moglie e due figli. L’uomo era depresso per il fallimento della propria ditta un paio di anni fa. Sarebbe, codesta, una notizia da cronaca nera locale, se dietro l’elegia funebre di prassi non si aprisse un’impensabile verità.
La verità è che sono undici. Sono oramai undici gli imprenditori padani, i ”padroni del vaporetto” triveneto, che dall’inizio del 2009 ad oggi si sono tolti la vita. L’ultimo di cui si ha notizia era Paolo Trivellin, un brav’uomo stritolato dai debiti perchè i propri committenti di lavori in subappalto alla Caserma Ederle ne avevano ritenuta ”imprecisa” la prestazione. Trivellin, distrutto dall’impotenza davanti al fallimento della piccola ditta, aveva protestato, e gridato la sua disperazione; dopodichè, trafitto dai sensi di colpa, s’è lasciato penzolare alla trave a vista di quelle villette di periferia fatte a mano - calce su calce, sudore su sudore, tutto rateizzatoche costellano la ridente campagna vicentina. Ecchè non c’è più molto da ridere, da queste parti. Neppure per gli operai: ieri si è registrato il suicidio di un magazziniere di Pordenone. A 46 anni, padre di tre figlie, si è ucciso dopo aver appreso una decina di giorni fa che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato.
DATI CONTRASTANTI
E dire che secondo la Banca d’Italia, qui, nel nuovo granaio della nazione, i depositi aumentano e i prestiti diminuiscono, e lo scudo fiscale ha ridato fiato al rientro di capitali, e il 2011 sarà ”in grande ripresa”, come dice un’indagine Manageritalia pubblicata dal Gazzettino; anche se, sempre qui, il Pil e la stessa produzione industriale diminuiscono del 19%, i disoccupati aumentano dell’8% e sempre più spesso dalla cassa integrazione ordinaria si passa alla straordinaria, fino a scivolare nell’abisso dello stato di crisi. Eppure è ancora qui, nel triveneto bello ma senza sorriso delle pagine di Ferdinando Camon e Andrea Zanzotto, che il tempo cristallizza le coscienze. E mentre nel resto del Paese scoppiano gli scandali Fastweb, gli appalti truccati, le truffe ecumeniche da miliardi d’euro; mentre tambureggiano gli incentivi per l’auto e i peana di salvezza verso gli operai di Termini Imerese; mentre, insomma, il resto d’Italia si fa i cavolacci suoi, beh, è qui che resiste ancora, e nonostante tutto, una dignità del lavoro. Schiena dritta, cuore grande e taciturno , ”Tera e acqua, acque e tera/ da putini e da grandi/”Siora tera a i so comandi”/po’ se crepa e bonasera”, scrive-va Gigi Fossati della terra dei doveri inarrestabili e delle carsiche contraddizioni. Perché è nel triveneto che gl’imprenditori trattano i propri operai come bande di fratelli; li coccolano come gente di famiglia; intrecciano la propria fortuna con la loro laboriosità. nel triveneto, terra d’imprese medie piccole e piccolissime, che lo stakanovismo diventa strana pandemia. questo l’unico luogo d’Italia dove -direbbero i sindacati illivoriti’i padroni” non solo non godono delle disgrazie dei propri dipendenti, ma ne soffrono come fosse un fallimento personale. In questa terra dove il patto di stabilità è una iattura che soffoca i comuni ad alta solvibilità, molte cose vanno al rovescio. Non esistono, da queste parti, gli Anemone, i Ricucci, gli Zunino, i Cragnotti, i Tanzi con i loro arricchimenti illeciti che soffocano l’etica; ma i Bauli, i Rosso, i Benetton, i Del Vecchio nati e cresciuti coi propri operai. E l’articolo 18 non è un modo semplice per disfarsi degli esuberi; e, quando avvengono, i tagli di personale sono brandelli della propria carne, mutilazioni dolorosissime. Alla faccia del triveneto con la mitologia quasi nietzscheana del quattrino, con cui lo psichiatra Vittorino Anderoli giustificava il parenticidio di Pietro Maso infiammato dall’egotismo di massa del popolo del nordest.
LA LISTA FUNEBRE
Scorriamo la lista dei suicidi: Giuseppe Nicoletto, 40 anni, panificatore si è tolto la vita il 21 gennaio scorso, impiccandosi nel suo laboratorio di Cadoneghe (Padova), che aveva da poco ceduto; Stefano Grollo dirigente d’azienda di 43 anni di Villorba, in provincia di Treviso, gettatosi sotto un treno prima di dichiarare la cassa integrazione; Walter Ongaro 58 anni, titolare di una falegnameria a Lutrano, Treviso, un’azienda di famiglia che porta il nome di suo padre e dei suoi fratelli e si è impiccato in un capannone della ditta, non poteva giustificarsi coi suoi otto dipendenti; Corrado Ossana, imprenditore padovano di 60 anni morto con un colpo di pistola al petto; Alberto Ottino, 40 anni, ha lasciato un biglietto in cui spiega alla famiglia il suo gesto disperato; Danilo Gasparini imprenditore 61enne si toglie la vita rinchiuso nella propria Renault vicino al cimitero di Postioma con il gas della propria vettura. Una catena di lutti impressionante.
Nell’etica aristotelica e nel cattolicesimoche permea i veneti fino al midolloil suicidio è peccato mortale. Vittorio Alfieri, però, lo intendeva come atto non di debolezza ma di ribellione: quando gli ostacoli della vita diventano insormontabili e l’uomo si sente sopraffatto da un destino che lo condanna alla sconfitta, egli ricorre al gesto, come la protesta a ciò che il destino gli ha riservato. Ecco, così ci piace pensare la debolezza estrema di un popolo che non è mai stato debole per natura...