NELLO AJELLO, la Repubblica 3/3/2010, 3 marzo 2010
QUEL MAESTRO DI VITA E DI INDIGNAZIONE
Mi è capitato di rivedere, qualche settimana fa, I vitelloni di Fellini. Quel film mi si era adagiato da quasi sessant´anni nella memoria. Potevo temere che, affrontandolo oggi, ne traessi la delusione degli antichi piaceri che sfumano.
Invece no. Seduto di fronte allo schermo, ho partecipato a una sorta di visita guidata attraverso gli anni Cinquanta. Ne ho gustato un ritratto intriso di letteratura. Le scene erano di un´eloquenza abbagliante. Ma la voce del cicerone, che mi è sembrato spiegasse ogni quadro, apparteneva a Ennio Flaiano. Non era affatto la voce di un centenario, come ora suggerisce l´Anagrafe. E mi si è radicata la convinzione che nulla potrà mai sgualcire Flaiano.
Ci hanno provato in tanti. Tesaurizzato in ogni foglietto volante, interrogato all´infinito, lui risponde tenendosi sempre alla propria altezza. Confermandosi cioè un «maestro di indignazione e di vita», come lo definiva Cardarelli. I suoi ammiratori ne fanno oggetto di un collezionismo iperbolico e un po´ malato. Ma Flaiano resiste al degrado. Ogni volta che lo si sollecita a ripetersi, ci offre la conferma che quello dello spiritoso di professione è un abito troppo stretto per lui.
Non sto parlando soltanto del Flaiano maggiore, di quello meno praticato dai fan, i quali di rado si ricordano, per esempio, del romanzo Tempo di uccidere (1947), che rimane uno sguardo rivolto da un intellettuale di alta sensibilità alla nostra patetica favola coloniale. Mi riferisco al genere più corrente cui si è affidato il compito di assicurarne la presenza: gag, aforismi, motti, bozzetti, sentenze. Quando meno te lo aspetti, un secondo prima di scuotere la testa come di fronte a un abuso dei posteri diventati filologi, scorgi fra le righe la testimonianza di una moralità complessa e coinvolgente.
Avevo cominciato a incontrarlo, Flaiano, nella redazione del Mondo, a Roma, prima in via di Campo Marzio, poi in via della Colonna Antonina. Prima che il cinema ne catturasse il talento, egli passava le sue giornate in quelle stanze, con funzioni di caporedattore, accanto a Mario Pannunzio. I due erano nati lo stesso giorno, il 5 marzo 1910. « chiaro», diceva Pannunzio, «che io sono nato un´ora prima e il posto di direttore è toccato a me». Fra Mario ed Ennio correvano rapporti antichi e saldi. «La nostra amicizia» (è il secondo a ricordarlo) «era fatta di pudore, di affetto e anche di quell´ironia che ci piaceva tanto».
L´autore del Marziano a Roma parlava poco. Leggeva i dattiloscritti, li tagliava, faceva i titoli, misurava il piombo con una cordicella che portava appesa su una spalla: l´omino dello spago. In un angolo dello stesso stanzone Mino Maccari, ben schermato dalla sua statura quasi impercettibile, lavorava dietro un tavolo a produrre vignette. Fra i due - l´abruzzese di Pescara e il toscano di Colle Val d´Elsa - si rafforzava una complice amicizia. Più ciarliero ed espansivo il pittore, infinitamente più meditabondo lo scrittore.
Tornando al giudizio di Cardarelli, era vasta e varia la gamma delle indignazioni cui andava soggetto il tranquillo redattore del Mondo: si trattava di un bagaglio esistenziale che - tanto tempo e tanto cinema più tardi - avrebbe rischiato di mutarlo nel giudizio di molti in un battutista «prêt-à-porter». L´omino dello spago era intento a uno scandaglio minuzioso di uomini e cose. La sua presenza negli eventi pareva sempre ufficiosa, occasionale. Fra gli aneddoti con cui punteggiava la propria testimonianza, figurava la sua casuale - e perciò tanto più tenera - partecipazione alla Marcia su Roma.
Ce ne parlò in una stanza della redazione dell´Espresso, dove veniva spesso a trovarci, sullo scadere degli anni Sessanta, quando, lasciata la famiglia, aveva trovato rifugio in un residence di via Isonzo, a un passo dalla nostra sede. Il 27 ottobre 1922 - ecco il racconto - il dodicenne Ennio Flaiano giunse nella Capitale, dove avrebbe frequentato le scuole fino all´università, in un treno traboccante di squadristi che affluivano sui sacri colli per portarvi, con molto rumore, «l´Italia di Vittorio Veneto». Il ricordo in forma orale era tanto più ricco e colorito di quello scritto (esso sarebbe apparso nel volume Frasario essenziale per passare inosservati in società, 1986). Dirlo esilarante sarebbe poco, benché Flaiano si mostrasse sorvegliato fino all´austerità, o forse proprio per questo. La protesta che emetteva rispetto ai ricordi imbarazzanti o al presente spiacevole era misurata ma tutt´altro che flebile.
Non sempre gli piaceva il cinema, che considerava alla stregua di un «gagne-pain», con un corredo pesante di convenzioni. Non amava la tivù. Non sopportava il teatro. Esecrava i pittori contemporanei tranne l´amicissimo Maccari che continuava a fargli ritratti irresistibili. Aveva in sospetto i giovani come categoria eterna la cui retorica resiste ai decenni e scavalca i regimi («Mussolini passa, il giovane resta, è immortale»). Diffidava di sé come scrittore («Da giovane mi piaceva perdere tempo, andare a spasso. Adesso mi piace scrivere. Quanto durerà? Mi accorgo che riuscivo meglio come passeggiatore»). L´Italia, questo popolo «mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia», era il suo bersaglio costante: in qualche caso, cedendo all´impazienza, tagliava corto: «Dietro ogni italiano si nasconde un cretino».
Roma, «l´enorme garage del ceto più medio d´Italia», attirava la sua avversione conclamata e il suo amore nascosto. Alchimista dell´ira e prestigiatore della disperazione, come lo definì Giorgio Manganelli dopo aver letto il Diario notturno, egli ipotecava il futuro per smaltire il malumore che gli gorgogliava nell´animo: «Lasciati un nemico per la vecchiaia», suggeriva a se stesso.
Dei moralisti che chiosano l´attualità si usa dire che vanno presi in giuste dosi. Flaiano si può leggerlo, rovistarlo e rievocarlo all´infinito senza farne indigestione. incontentabile, pudico e malinconico. Mentre scatta il traguardo del suo secolo (1910-2010), ci si accorge di aver riso tanto per merito suo. Una risata ininterrotta, senza speranza.